I 750 anni della dedizione di Umago a Venezia

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I 750 anni della dedizione di Umago a Venezia

Quest’anno ricorrono i 750 anni della dedizione di Umago alla Repubblica di Venezia avvenuta, ufficialmente, il 3 dicembre 1269, un evento che rappresentò una svolta nella storia della località istriana giacché la ricerca dell’aiuto e della protezione della Serenissima significò, di fatto, liberarsi dalle mire espansionistiche che il Patriarcato di Aquileia ed i Conti di Gorizia nutrivano all’epoca verso la nostra penisola. Tuttavia, se vogliamo credere alla tradizione, la storia di Umago iniziò ad intrecciarsi con quella veneziana già molti secoli prima della dedizione, al punto che, per due singolari avvenimenti che la videro protagonista, le fu attribuito il titolo di “Fedele a Venezia”.

Il primo riguardava la sosta nel porto di Umago, causa una burrasca, dell’imbarcazione che trasportava da Alessandria d’Egitto a Venezia le spoglie di S. Marco trafugate da Rustico da Torcello e Bono da Malamocco nell’828; l’altro motivo che giustificava il forte legame con la città lagunare concerneva la scelta di Umago quale nuova sede della capitale quando ci si accorse che la Laguna veneta si stava interrando. A prescindere dalla reale o presunta veridicità dei fatti narrati, il passaggio sotto le ali protettrici della Serenissima significò per la città un lungo periodo di sudditanza politica e culturale di cui ancora oggi, rimangono le tracce.

Primi contatti con Venezia

La Serenissima, che già nel 932 aveva imposto a Capodistria l’atto di omaggio, un tributo annuo di cento anfore di vino e privilegi commerciali, verso il Mille s’insediò nelle isole del Quarnero e, per tutelare i suoi molteplici interessi nella penisola, tentò di imporre alle città un giuramento di fedeltà che comportava per la Dominante tutta una serie di privilegi commerciali. Come le altre città istriane anche Umago fu costretta, nel 1150, a giurare fedeltà al doge impegnandosi ad esentare i mercanti veneti da ogni dazio, a prendere parte alle spedizioni militari della Repubblica sino a Zara e Ancona, a pagare annualmente due romanati (moneta d’oro) al doge nonché versare quaranta orne d’olio alla chiesa di S. Marco.
Tuttavia, le incursioni piratesche e le carestie che avevano caratterizzato gli ultimi secoli del basso medioevo contribuirono non poco ad aggravare la situazione economica di Umago, che per motivi di sicurezza dovette chiudersi entro le mura. Con il miglioramento, dall’XI secolo, delle condizioni economiche la località si espanse sulla terraferma e crebbe il numero degli abitanti: cambiò anche l’assetto giuridico – amministrativo del centro costiero, menzionato dapprima come “Villam Humagi” ed, in seguito, come “civitas Humagi” (XII sec.) e “Castrum Humagensem” (XIII sec.). La crescita demografica ridusse però lo spazio a disposizione, per cui tra la Valle della Moela e le acque del porto si dovette costruire una seconda cinta di mura che diede vita al borgo, di cui si trova sicura menzione nel 1333.
Intanto, con il venir meno del potere patriarcale in Istria, molte città assunsero ordinamento comunale. Anche Umago, che nel frattempo si era liberata degli ultimi legami feudali, divenne comune autonomo con un proprio statuto in cui il potere amministrativo e giudiziario era esercitato da magistrati eletti dal popolo. Nel 1208, però, l’imperatore Ottone IV infeudò l’Istria al Patriarcato di Aquileia ed i comuni istriani, nel timore di cadere sotto il dominio dei Conti di Gorizia in lotta con il patriarcato aquileiese, preferirono ricercare la protezione e l’aiuto della Serenissima che, il 3 dicembre 1269, prese possesso di Umago e inviò in qualità di rettore il nobile veneziano Marino Bembo.

La figura del podestà

Nel patto di dedizione con il quale Umago si dava a Venezia furono subito specificate le condizioni che gli umaghesi erano pronti a fare al nobile veneziano che la Dominante avrebbe inviato a reggere la Terra quale podestà. Contrariamente all’uso veneto dei sedici mesi per i luoghi di terraferma, gli abitanti chiesero che il rettore rimanesse in carica due anni, salvo poi ridurlo, su richiesta degli stessi cittadini, ad un anno nel 1314; in seguito, la durata fu fissata a sedici mesi. Tra gli obblighi cui doveva attenersi, vi era quello fondamentale di informare i Provveditori e Sopraprovveditori alla Sanità sulla presenza della peste o di altri morbi nella località da lui amministrata o in altri territori, ed era prevista la pena di morte qualora avesse consegnato la città al nemico o patteggiato la resa. Nel caso la città fosse caduta in mani nemiche, entro quindici giorni doveva far ritorno a Venezia e mettersi a disposizione del Consiglio dei Dieci per il processo, che altrimenti avveniva in contumacia.
Nel periodo in cui la cittadina fu sottoposta al dominio di Venezia, la struttura del potere vide al vertice il podestà, coadiuvato nell’espletamento delle sue funzioni dal cancelliere e da un vice gerente, nominati dallo stesso podestà e, come lui, stranieri. Vi era poi il Consiglio cittadino, costituito da membri appartenenti al patriziato locale e alle famiglie più in vista, che eleggeva due dei tre giudici; il camerlengo, economo del comune; due giustizieri, uno scelto dal Consiglio e uno dal popolo, i quali svolgevano la funzione di stimatori e verificatori dei pesi e delle misure; il cavaliere, “capo della Sbirraglia” (le milizie cittadine); tre collaboratori nell’amministrazione della giustizia, denominati cataveri; due avvocati “dati per le liti di privati”; due camerari della chiesa e tre deputati incaricati di “uegliare e provvedere allo stato ed onore del Comune”.

Il controllo del territorio

Dopo il passaggio della città alla Dominante si avvertì pure la necessità di una maggiore difesa dell’abitato, per cui furono consolidate le vecchie fortificazioni con la costruzione, a sud – ovest, della torre e del bastione munito di bombarde. Altri interventi sulla cinta muraria furono eseguiti nel XVII secolo in concomitanza con le guerre di Gradisca (1615 – 1617) e di Candia (1645 – 1669), dopo di ché le mura, abbandonate e in parte demolite sul finire del XVIII secolo, servirono di base alle costruzioni successive.
Con la dedizione di Umago e delle altre città e terre istriane per la Serenissima si pose la questione fondamentale della difesa dei nuovi possessi, per cui nel 1276 fu stabilito che tra i podestà inviati nella penisola vi dovessero essere continui contatti e una fattiva collaborazione nella difesa dei centri istriani e nell’applicazione delle direttive impartite loro. Tuttavia, le acquisizioni territoriali scaturite dalle vittorie contro il Patriarcato di Aquileia ed i Conti di Gorizia costrinsero la Repubblica a dare un carattere unitario all’organizzazione militare dei suoi possessi istriani, che fu raggiunto con l’istituzione del cosiddetto “Pasenatico”, la cui sede, inizialmente posta a Parenzo, fu spostata nel 1304 a S. Lorenzo al Leme.

Sede del Pasenatico

Ad ogni modo, le nuove acquisizioni territoriali nell’Istria meridionale e la famosa ribellione di Capodistria del 1348 resero sempre più impellente l’istituzione di un nuovo commando militare in grado di garantire il controllo di un territorio così ampio, per cui nel marzo del 1356 Umago fu scelta quale sede di un secondo “Pasenatico”. Al nuovo rettore furono attribuite le stesse condizioni del capitano di S. Lorenzo ed ebbe in reggenza anche le podesterie di Umago e Cittanova. La permanenza del capitano a Umago fu però breve: per motivi di ordine strategico, nel 1359, Venezia decise di trasferire la capitanìa a Grisignana, che nel frattempo era passata sotto il suo dominio. Privata del contingente militare, nella seconda metà del Trecento la città soffrì le ripetute scorrerie dei genovesi che, al commando di Paganino Doria, erano penetrati nell’Adriatico già nel 1354. Attaccata e saccheggiata nel 1370, Umago fu nuovamente aggredita nel 1379 dalle soldatesche di Pietro Doria che, pur avendo trattato la resa pacifica, occuparono la località e la consegnarono alle truppe patriarchine; la tradizione vuole che in tale occasione i genovesi asportassero le reliquie dei santi Niceforo e Massimiliano.
Al disastro perpetrato dai genovesi se ne aggiunse, ben presto, quello causato dalle frequenti epidemie di peste e malaria dei secoli XV – XVII responsabili dello spopolamento e del tracollo economico dell’agro umaghese, per arginare il quale Venezia intraprese un’intensa azione colonizzatrice con genti provenienti da altre aree geografiche che furono investite di fondi e casali e godendo, per vent’anni, l’esenzione da ogni gravame personale e reale.

Epidemie e ripopolamento

La località, che aveva vissuto nei primi secoli dopo il Mille un discreto periodo di prosperità economica e demografica, testimoniata dall’espansione dell’abitato sulla terraferma, nei secoli XIV – XVII fu soggetta a un profondo depauperamento demografico ed economico ascrivibile alle guerre, alle cicliche incombenze epidemiche e alle carestie, che contribuì ad alimentarne la fama di luogo pestilenziale e malarico. Anche lo stato d’indecenza in cui versava allora la città accelerò sicuramente il degrado della stessa e a nulla servirono le disposizioni statutarie in materia di igiene pubblica che dovevano richiamare la popolazione all’osservanza delle elementari regole di pulizia. Tali disposizioni si rivelarono, però, insufficienti e non arginarono le cattive abitudini igieniche, che pregiudicarono pertanto la salute pubblica, trasformando la cittadina in un potenziale focolaio epidemico.
Oltre alle pestilenze, che colpirono la città nei secoli XV-XVII, a rendere precaria l’esistenza della popolazione fu soprattutto l’insalubrità dell’aria (la “mal’aria”) diffusa lungo tutta la fascia costiera e in alcune aree dell’interno. Anche il rifornimento idrico per le necessità della cittadinanza rappresentò al tempo un problema di non facile soluzione, per sopperire il quale il podestà e capitano di Capodistria, Angelo Morosini, ordinò la costruzione di una cisterna “bella e capace di sicuro refrigerio a quei habitanti”. La costruzione della cisterna pubblica, tuttavia, per quanto contribuisse ad alleviare l’atavica sete della popolazione, non risolse del tutto il problema dell’approvvigionamento idrico della città, che nei decenni successivi continuò ad essere la preoccupazione più sentita dagli abitanti.

La colonizzazione

Nei secoli XVI e XVII Umago e il suo territorio erano quasi del tutto deserti, circostanza che spinse la Serenissima ad intraprendere un’intensa azione colonizzatrice, nella speranza di ripopolare le campagne abbandonate e scongiurarne in tal modo l’inevitabile tracollo economico. La Serenissima cercò allora di dar rifugio nelle plaghe deserte dell’Istria a popolazioni provenienti dalle regioni etniche slavo-meridionali, greche e albanesi, cacciate dalle regioni balcaniche dai Turchi nel pieno della loro forza espansiva, e già nel 1463 Salvore, desolata dalla peste, fu ripopolata con una colonia d’immigrati slavo-meridionali.
Anche l’agro umaghese fu interessato dall’importazione di popolazioni allogene, soprattutto morlacchi, nella speranza di risollevarlo dalle vicissitudini che l’avevano colpito. La decisione del senato veneto di assecondare le genti morlacche desiderose di venire ad abitare la penisola ebbe un immediato riscontro e, negli anni 1540-41, con morlacchi e dalmati furono ripopolate le campagne abbandonate nei pressi di Umago. Le terre colonizzare erano aride e poco produttive, molto simili a quelle che avevano abbandonato, terre che per essere lavorate richiedevano una grande capacità di adattamento e una notevole forza fisica. I nuovi venuti, differentemente da quelli provenienti dalla vicina penisola italiana che non erano riusciti ad assuefarsi alla nuova realtà, sembravano invece possedere tutti i requisiti necessari per una rapida integrazione, a partire dalla robusta costituzione fisica che permetteva loro di lavorare i terreni concessi.
Un discorso a parte merita l’arrivo degli albanesi e soprattutto dei cosiddetti “Cargnelli”, genti, quest’ultime, provenienti dalle regioni montuose della Carnia che sin dal basso medioevo si erano stanziate in Istria e il cui flusso, dal XVI secolo, assunse proporzioni sempre più rilevanti. Tale emigrazione, che ebbe un carattere prettamente individuale in quanto non fu gestita dalla Dominante, portò i carnici ad insediarsi prevalentemente nelle aree interne della penisola dove in un’area agricola e dedita all’allevamento supplirono alla totale mancanza di manodopera artigianale.

L’attività economica

In epoca veneziana il punto di riferimento per ogni attività commerciale era rappresentato dal porto, sufficientemente spazioso e al riparo dai venti, che per la sua posizione geografica di fronte alla Serenissima diventò una tappa quasi obbligata per chi volesse raggiungere l’Istria o spingersi verso le isole quarnerine e la Dalmazia. Dato che in esso si concentrava il commercio di quasi tutto il territorio, era nell’interesse di Venezia e della popolazione locale che fosse efficiente e sicuro, in quanto una diminuzione dei traffici avrebbe causato un ulteriore depauperamento della città e il conseguente venir meno dei benefici che gli abitanti del luogo traevano dallo stesso.
L’agro colonico umaghese era in prevalenza pianeggiante e “molto pingue di frumenti, vini, ogli, pascoli, boschi”; nel XVI secolo i vigneti erano coltivati “a piantada bassa”, dalla caratteristica forma a cespuglio, e appena dal primo Seicento cominciarono a diffondersi quelli a piantada alta, diversi dai precedenti per il fusto più elevato ed i filari sostenuti da pali in modo da sfruttare meglio il terreno sottostante per la semina dei cereali. L’olivo, invece, la cui coltivazione in Istria aveva un’antica tradizione, si diffuse sul territorio umaghese su vasta scala solo a partire dagli anni 1650 – 60. Anche lo sfruttamento dei boschi rappresentava una voce importante dell’economia locale: i boschi, infatti, oltre a offrire legna da ardere alla popolazione, fornivano soprattutto legname da costruzione alla Serenissima che, sin dal 1476, aveva emanato uno dei più organici interventi normativi in materia di legislazione forestale, diretto a prevenire i danni causati ai boschi da persone e da animali, i pericoli di incendio, a promuoverne il rinnovamento e lo sfruttamento razionale con cicli di taglio quinquennali ed ottennali. Nel catasto del 1556, compilato dal Provveditore sopra legne in Histria et Dalmatia Fabio da Canal, fu stimato che i nove boschi comunali avrebbero dovuto fornire circa 22.000 “stroppe”, poco più di 30.000 metri cubi di legname.

La comunità a fine Settecento

La società umaghese di fine Settecento era ancora fortemente legata alla terra, ma al suo interno si stavano lentamente affermando attività quali l’artigianato, la marineria e la pesca, destinate ad affermarsi definitivamente tra Otto e Novecento. All’epoca i “lavorenti di campagna” soverchiavano nettamente tutti gli altri profili professionali, visto che l’agricoltura assorbiva mediamente il 60% della popolazione in età lavorativa, una percentuale destinata a sfiorare, nel 1790, addirittura il 90%. I contadini, inoltre, potevano contare su un discreto patrimonio zootecnico che, quantunque fosse stato decimato a più riprese dalle epizoozie del XVIII secolo, costituiva un fattore sociale ed economico di notevole portata in quanto produttore di ricchezza e strumento efficacissimo per il miglioramento dell’agricoltura.
Per l’assistenza sanitaria la comunità aveva a disposizione pure un ospedale che, tuttavia, versava in uno stato di desolazione “per la miserabile rendita di sole L. 13:07 le quali non bastano a mantenere annualmente il Fabbricato”, mentre la vita religiosa era curata da sei preti, cinque dei quali “provvisti di benefizio”, e da un chierico. A questo proposito ricorderemo che alla fine del Settecento fu risolta finalmente l’annosa diatriba tra la diocesi di Cittanova e quella triestina riguardante la giurisdizione ecclesiastica di Umago. Nel 1784, infatti, dopo una serie di alterne vicende che avevano visto il possesso ora dell’una ora dell’altra, il Senato veneto decretò che la Chiesa di Umago e il suo territorio passassero finalmente sotto la giurisdizione della Chiesa cittanovese e, il 19 ottobre, il vescovo Giovanni Domenico Stratico prese solennemente possesso della Collegiata che appartenne al vescovato sino all’estinzione dello stesso.

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