Elvia Nacinovich: una lunga avventura nell’affascinante e magico mondo del teatro

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Elvia Nacinovich: una lunga avventura nell’affascinante e magico mondo del teatro

FIUME | Elvia Nacinovich, quarant’anni e passa di palcoscenico; un agone in cui si svolge la grande commedia della vita, uno spazio metafisico che riconduce gli spettatori – e in primis gli attori – all’universale linguaggio dei sentimenti umani.

La primattrice del Dramma Italiano, dopo aver speso tutta una vita nell’arduo intento (ben riuscito) di restituire, con le sue pregnanti interpretazioni, una lunga galleria di personaggi umani, di entrare nelle anime e nelle menti delle più svariate e intricate tipologie e creazioni psicologiche del teatro, si è ufficialmente ritirata dalle scene per godersi la meritata quiescenza. L’artista ha accettato di buon grado il nostro colloquio, condividendo generosamente la sua avventura nell’affascinante e magico mondo del teatro.
Bell’impresa spiegare l’animo umano! Gassman sosteneva che recitare non fosse “molto diverso da una malattia mentale: un attore non fa altro che ripartire la propria persona con altre. È una specie di schizofrenia”.
Elvia Nacinovich non fa che confermare l’asserzione del grande attore italiano. “Quando cala il sipario e le luci si spengono, non è che tu possa congedarti dal tuo personaggio e andartene per i fatti tuoi. Neanche per idea! Te lo porti ancora dentro, ci rimugini sopra, ti perseguita. Ma se poi, qualche anno dopo lo incontri una seconda volta, ti accorgi quanto esso sia maturato in te, e quanto ti abbia fatto maturare. E allora io mi sento davvero arricchita!.”

Una punta di diamante

Punta di diamante della compagnia di prosa della CNI e artista versatile – è pure autrice di spettacoli per ragazzi, traduttrice, regista e poetessa – può vantare una messe di premi e una miriade di personaggi da lei “reincarnati”, che qui sarebbe troppo lungo elencare. Ma un flashback, uno per tutti, ce lo vogliamo permettere. Ci riferiamo alla sua interpretazione di Elisabetta II in “Maria Stuarda”, di Dacia Maraini. Sembrava “l’incarnazione astratta” dell’idea di potere, un essere metafisico uscito dalla storia, una sublimazione creata dal pennello di Velasquez… Algida, severa, carismatica, trionfava nello sfarzoso rigore di perle, gorgiere e cupe vesti. Investita di luce, il suo sguardo azzurro, fermo e scintillante, pareva dominare il tutto… Accanto a Elvia, validissima compagna, Ester Vrancich, all’epoca Segalla, nei panni di Maria Stuarda.

È soddisfatta della sua scelta professionale?

“Assolutamente. È stata una scelta spontanea, naturale direi. Intanto tutti i bambini sono già naturalmente portati all’imitazione, a fingere di essere questo personaggio o quell’altro. La mia scelta è stata forse influenzata anche dal lavoro di mia madre, che era sarta. Osservavo i vari pezzi di stoffa che una volta modellati e cuciti insieme assumevano un aspetto definitivo; e questa era una cosa che non avrei mai voluto essere. Non volevo essere ‘sempre uguale’, volevo avere tante ‘forme’, essere tanti personaggi diversi. A un certo punto, nella vita bisogna scegliere quale sarà il nostro ‘ruolo’ principale e unico. Il lavoro dell’attrice – che poi non è un lavoro, ma un gioco – ha le sue regole serie, ferree, però ti dà anche tante soddisfazioni, che un qualsiasi lavoro di routine non ti potrebbe dare. Non tutto è rose e fiori, certo. Ci sono successi, cadute, tante frustrazioni; ma essendo istriana, non butto via niente, e quindi anche dalle frustrazioni ho imparato a distillare qualcosa di buono. Io mi sento privilegiata anche perché ho lavorato in un periodo in cui un attore contava. La sua opinione valeva quanto quella del regista, del direttore. Noi avevamo molta più libertà d’espressione. Oggigiorno i giovani attori non si trovano in queste condizioni”.

Che cosa è cambiato?

“È tutto il sistema che è diverso, parlando in generale. Siamo arrivati a una specie di feudalesimo. C’è il ‘padrone’ che ha potere di ‘vita e di morte’: il fatto che un direttore, un sovrintendente abbia la possibilità di licenziarti in tronco… Io ho sempre detto quello che pensavo e non mi è mai successo niente; ma erano tempi diversi, non rischiavo niente. È una situazione generale e non credo che sia molto positiva. Il Dramma Italiano era un’isola felice. Noi ci dicevamo le cose in faccia, ma lo scopo comune era sempre il successo dell’istituzione”.

Come si fa ad affrontare tanti ruoli diversi?

“Affrontare il subconscio di un personaggio che devi interpretare è come una password per accedere al tuo di subconscio, compresi i lati più oscuri che non vorresti neanche vedere. E questo ti arricchisce, ti fa conoscere meglio te stesso, ti induce ad accettarti per quello che sei e quindi a volerti bene. Ti aiuta a capire meglio e a voler bene anche agli altri, a diventare generoso”.

Una miriade di ruoli diversi

Hai interpretato i personaggi più svariati: la serva, la regina, la popolana, la signora borghese… Come si fa?

“Bisogna trovare la chiave di lettura. Dipende poi anche dall’autore e dal testo. Ci sono personaggi ’piatti’, ai quali tu devi dare tutto, devi inventarti tutto quello che non hanno, sennò rimangono appunto ‘piatti’. Ci sono poi altri personaggi, mettiamo quelli di Pirandello, che hanno una loro forza insita, che ti prendono e ti conducono per mano. Tu devi semplicemente metterti a disposizione, umilmente, con quello che hai, con quelli che sono i tuoi mezzi: il tuo corpo, la tua voce, la tua espressione… e poi ti lasci trasportare. Allora è facile. Avendo poi un regista che sa calibrare, vai sul velluto. Poi, con l’età ti rendi conto che nella vita è tutta questione di interpretazione. Arrivi al paradosso dell’avvocato: un buon avvocato è quello che interpreta bene la legge a favore del cliente. Così è per l’attore, che deve diventare l’avvocato del suo personaggio, quello che lo rappresenta al meglio”.

In tutta questa girandola di personaggi ce n’è uno, o qualcuno, che ti calzava proprio a pennello, che sentivi di essere lui?

“Quello dell’attore è un mestiere, un artigianato. A volte c’è la fortuna, il guizzo… per cui l’artigianato diventa arte; ma non succede così spesso. A noi comuni mortali”.

A tu per tu con grandi registi

Sei stata diretta da grandi registi. Maffioli, Mangano, della Porta Xidias e altri. Che cosa ti hanno dato?

“Il mio primo regista è stato Giuseppe Maffioli, con il quale entrai subito in sintonia. Intanto perché parlava un dialetto di Treviso che aveva molti termini simili al bumbaro, per cui lo capivo più degli altri attori. Era un tipo un po’ rude, schietto… insomma aveva un tipo di carattere in cui io mi riconoscevo. All’inizio mi diede una tale scossa, in un linguaggio… irripetibile. Però mi aiutò. Era una di quelle persone che ti accompagnano per mano, però senza mettersi in mostra. Riusciva a cavare il meglio da ognuno, e non trattava l’attore come una pedina, ma anzi, lo valorizzava. Ricordo un fatto: Maffioli per anni si era rifiutato di fare ‘Mistero buffo’ di Dario Fo, perché diceva che questo pezzo lo potevano fare solo Fo e de Filippo. Però accettò di allestirlo con il Dramma Italiano. Assistetti allo spettacolo da spettatrice. Sembrava scritto espressamente per gli attori del DI! Raniero Brumini, pelle e ossa, che faceva il Cristo… Giulio Marini faceva l’angelo ubriaco, uno dei suoi migliori ruoli. Uno spettacolo indimenticabile!
Macedonio era molto generoso, ti dava tanto. Aveva un modo di fare stranissimo: non finiva mai le frasi. Incominciava con un concetto, poi passava a un altro… ma alla fine era tutto chiaro. Diceva: ‘Siate contenti finché vi critico, perché il giorno in cui smetterò di criticarvi significherà che mi sono rassegnato, che non potete fare di più’. E poi Mangano, che è un ottimo psicologo, che sa quando è il momento di smettere, di fare una pausa… Con lui non ci sono tempi morti, sa esattamente quello che vuole. Lavorare con Mangano è sempre una festa! Ma ci sono anche i giovani. Come Larry Zappia, con il quale ho avuto la fortuna di fare due lavori. Un uomo di teatro nel pieno significato del termine. Mi dispiace moltissimo, per il teatro, che se ne sia andato.
Spiro della Porta Xidias è stato il mio maestro all’Accademia regionale di arte drammatica; è stato il primo che abbia creduto in me e quindi c’è un bel rapporto di gratitudine e affetto”.

Con Zlatar Frey invece…

“Fino ai cinquant’anni ho lavorato con tanti registi; dopo i cinquanta ho scelto di lavorare con chi mi andava bene. Il rapporto con Frey è nato sotto una cattiva stella. Sarà forse anche una questione caratteriale. Insomma: ‘Frey, chi è costui?’
Se non erro una volta si sceglieva un repertorio antologico, di grandi autori, mentre oggi mi pare che il cartellone punti su generi più leggeri…
“Siamo l’unica compagnia di prosa della CNI e quindi dobbiamo accontentare fette di pubblico diverse. Ma poi anche uno spettacolo per bambini, se fatto bene, piace pure agli adulti. Comunque, nel repertorio, ogni anno si inserivano grandi nomi del teatro italiano come anche grandi autori jugoslavi, in quanto il nostro ruolo era quello di ponte tra due culture”.

Come valorizzare i nostri autori

Si ha la netta impressione che gli autori di maggior spessore della CNI, penso a Osvaldo Ramous e Alessandro Damiani, le cui opere son ben degne di varcare i confini nazionali, siano poco rappresentati e poco valorizzati da noi, come dal teatro di maggioranza…

“Forse non si è neanche appieno coscienti del loro valore. Bruno e io nel nostro piccolo abbiamo allestito anni fa ‘Intervista con Ramous’, uno spettacolo molto agile che abbiamo portato anche nelle più piccole Comunità dell’Istria. Il pubblico, di regola era stracontento. Insomma, una formula vincente.
…da applicare regolarmente. Si fa un gran parlare di multiculturalismo, di collaborazioni e scambi culturali. Il Dramma Italiano ha portato in Italia Krleža, e in genere nel cartellone del DI quasi ogni anno sono presenti degli autori croati. Da parte sua invece, il Dramma Croato non ha mai allestito uno spettacolo dei citati letterari della CNI. Neanche un recital di poesie di Ramous, non poche delle quali sono state tradotte in croato.
“Sarebbe un’idea. Bisognerebbe incontrarci, parlare con i colleghi del Dramma croato… Non possiamo pretendere che abbiano una sensibilità in questo senso; siamo noi che dobbiamo promuovere i nostri autori in un contesto maggioritario con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione; anche perché con la loro vena poetica profonda e raffinata parlano molto di noi, del nostro mondo, di quello che siamo. Forse si dovrebbe far evadere Ramous e Damiani dal nostro ‘ghetto’, nel quale tendiamo a chiuderci“.

Anna Magnani e Maria Callas
Ma veniamo ai ruoli di Anna Magnani e di Maria Callas…
“Mi sono ritrovata molto nel ruolo della grande Magnani. ‘Finalmente, a queste occhiaie che mi porto da una vita darò senso (ride)’, è stato il primo pensiero che mi è venuto non appena ho saputo che avrei fatto questa parte. Sento una comunanza con la Magnani anche per certi aspetti un po’ bruschi, del mio carattere; e poi anch’io ho una voce da contralto come lei.
La frase che più frequentemente circola nell’ambiente del teatro di prosa è: ‘Voglio essere me stessa!’ Io invece, per tutta la vita ho cercato di essere diversa, di essere i miei personaggi; però alla fine ti ritrovi per forza con te stessa, con il materiale interiore che hai. Resta il fatto che tutti noi siamo impastati di fango e di santità, di bene e di male, noi, come i personaggi che interpretiamo. Quindi, alla fine, per forza devi contare sulle proprie risorse, attingendo alla ricchezza che hai ‘dentro’. Ho trovato dei punti di indentificazione anche con Maria Callas. Era salita fino all’Olimpo dell’arte, ma sul piano personale è stata una donna infelice. Abbiamo avuto due destini diversi. Io non ho mai raggiunto certe vette, però mi sono realizzata anche nella vita privata. Non ho rinunciato a niente e sono orgogliosa di questo”.
Quanto è importante la famiglia?
“La famiglia è essenziale. Sono cresciuta in una famiglia meravigliosa. Sono stata amata, i miei genitori mi leggevano le fiabe… ho trascorso l’infanzia in un paese, dove tutti ti conoscono, scorrazzi dove ti pare e ti senti il padrone del mondo. Con mio fratello ho un bellissimo rapporto. Poi mio marito, i suoceri… Meravigliosi! Ho due figli pure meravigliosi, responsabili, che ci hanno proprio ‘allevato’. Vivono all’estero. Per il mio ultimo compleanno mi hanno inviato un magnifico bouquet – con una dedica che mi ha commosso – e hanno regalato, a me e a mio marito, una settimama a Parigi. Che cosa vuoi di più dalla vita?”.

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