«Dobbiamo lottare per una società aperta e moderna»

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«Dobbiamo lottare per una società aperta e moderna»

FIUME | Sono tempi cupi quelli che si stanno vivendo in Croazia. A infiammare gli animi della società, più che temi di scottante attualità, sembra essere ancora il rapporto con la memoria storica della Seconda guerra mondiale e della Guerra patriottica degli anni Novanta. Se nel periodo che ha preceduto l’entrata del Paese nell’Unione europea si era vissuta un’atmosfera politica sempre più distante dal nazionalismo aggressivo degli anni ‘90, ultimamente sigle di estrema destra, che guardano con nostalgia all’ideologia di Ante Pavelić e che approvano la presenza in pubblico della simbologia ustascia ricollegabile all’NDH – lo Stato satellite della Germania nazista e dell’Italia fascista, che comprendeva la maggior parte della Croazia e tutta l’attuale Bosnia ed Erzegovina durante la Seconda guerra mondiale –, tornano a farsi sempre più incisive. Che cosa implica tutto ciò per le minoranze e per la società civile? Ne abbiamo parlato con Tvrtko Jakovina, storico di fama internazionale, docente all’Università di Zagabria e collaboratore a contratto della Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna.

Jakovina è autore di numerosi volumi che analizzano gli eventi storici del Secolo Breve, con particolare riferimento alla Jugoslavia di Tito, alla Guerra fredda, ai rapporti della Stato socialista jugoslavo con gli Stati Uniti, alla Guerra patriottica croata e alla società croata in generale. L’abbiamo incontrato durante la sua visita a Fiume nel corso della quale ha incontrato il direttore del Museo Civico, Ervin Dubrović, per discutere con lui del recupero della storica nave “Galeb” di Tito e della sua trasformazione in museo.

Perché investire tanto nel progetto di restauro della nave di Tito?

“La Galeb, oltre a essere monumento culturale per il suo significato presidenziale, è interessante perché a un certo punto ha avuto un ruolo importante nella storia mondiale. Oggi non viene più posta la questione di come la nave sarà conservata, perché i finanziamenti per la sua ristrutturazione esistono. La storica nave – che fu costruita a Genova nel 1938 come bananiera veloce della Marina Mercantile e successivamente confiscata dai tedeschi che la impiegarono come dragamine – farà parte dell’offerta culturale del Museo Civico di Fiume e sarà un simbolo per cui tutti ricorderanno il capoluogo quarnerino. Il maresciallo Tito intraprese su quest’imbarcazione il suo primo viaggio a Londra nel ‘53, segnò anche il suo primo viaggio all’estero dopo la rottura con Stalin. Poi sono seguiti i ‘viaggi della pace’ negli Stati che facevano parte del Movimento dei Paesi non allineati – la maggiore organizzazione di Stati nella storia – che pur non possedendo l’influenza di una volta, è ancor sempre attivo. In Croazia sappiamo molto bene che anche i Paesi apparentemente irrilevanti hanno il loro posto nel mondo e a nessuno fa piacere sentirsi trascurati. È finito il periodo della Guerra fredda, in cui la politica jugoslava aveva un certo peso e poteva giocare un ruolo che, oggettivamente, era al di sopra delle sue capacità. L’eredità di quel passato però rimane, e può essere rappresentata in tutti i suoi lati, positivi e negativi”.

Quale futuro può avere la storica nave?

“Penso che la Galeb con la sua storia sia talmente affascinante e straordinaria da potere diventare una delle prime curiosità alle quali associare Fiume. Nel mio ruolo di consulente esterno contattato per individuare l’impostazione espositiva ideale della nave, auspico che essa venga allestita in modo tale da diventare interessante sia come museo che come attrazione storica. La Galeb in passato era importante e nota a livello globale e oggi a mio parere dovrebbe essere presentata al pubblico come tale, in quanto nulla di essa ha carattere locale. Essendo stata anche un simbolo dei ‘Non allineati’, questo mercantile italiano provvisto di un motore Fiat ancora in ottimo stato rappresenta una pietra miliare della Guerra fredda. Oggi molti Paesi di quel mondo che negli anni ‘60 si era riconosciuto in quel movimento politico che lottava contro l’egemonia dei potenti, non sono più il ‘Terzo Mondo’. Alcuni di quei Paesi sono diventati molto più ricchi e oggi sono il motore dell’economia globale. Chi oggi arriva in Europa e nelle nostre regioni da quei Paesi anche come turista, potrà certamente trovare un collegamento con le proprie nazioni d’origine proprio visitando la Galeb. Questa nave è la dimostrazione lampante che anche le piccole nazioni possono ambire a grandi cose. In tal senso ritengo che sia fondamentale per Fiume farne un soggetto museale di tale valenza, in modo da rendere la città visibile ben al di fuori dell’area quarnerina e dell’Alto Adriatico”.

Lei è noto come storico e docente a livello internazionale; spesso è ospite di istituti universitari, sia europei che statunitensi. Come presenta al pubblico all’estero, principalmente a studenti e ricercatori, la figura di Josip Broz Tito?

“Tito è stato lo statista più importante e di maggiore fama proveniente dall’Europa sudorientale. È stato il più influente, il più noto e il più potente politico di questa regione. Niente male per un semplice contadino dello Zagorje. Anche oggi, a 38 anni dalla sua morte, mantiene questo ruolo. Senza conoscerne appieno la vita e senza sapere l’importanza che ha avuto, che cosa ha rappresentato, non si possono comprendere fino in fondo le cose. Non si possono capire i rapporti italo-croato-sloveni e costruire una convivenza senza illustrare a vari livelli il potere decisionale o l’influenza che Tito ha avuto sulla cultura, sulla politica, sulla vita sociale e militare. Quando parlo del XX secolo agli studenti delle università straniere, le cose sono chiare. Quando espongo su Tito agli stessi studenti, è spesso più facile per loro comprendere quale fosse la sua complessa personalità ed è molto più semplice parlare anche dei suoi lati meno positivi. In Croazia, purtroppo, non esiste la possibilità di stabilire un rapporto critico o un atteggiamento professionale verso tali argomenti, perché troppo spesso gli studenti ragionano attraverso i dettami dell’ideologia dominante, quella socialmente corretta e conforme alla collettività, che più comunemente viene definita nazionalista”.

Si arriverà mai a una verità condivisa sul caso di Jasenovac?

“L’unica verità è che Jasenovac era un campo di concentramento in cui furono assassinate decine di migliaia di persone innocenti. Tutto il resto può essere oggetto di discussione e dibattito. Possiamo tentare di quantificare il numero di vittime innocenti sterminate, di quanto sia attendibile la cifra di 100mila persone uccise, di quanti nominativi siano stati riportati più volte nell’elenco delle vittime. Si può discutere anche di coloro i quali riuscirono a uscire vivi dal lager. Ma non possiamo e non dobbiamo permettere che venga messo in discussione il fatto che Jasenovac fu un campo di concentramento in cui gli ustascia sterminarono serbi, ebrei e rom”.

Lei è stato tra i primi storici croati a riconoscere e a condannare l’esodo e le foibe. Buona parte della storiografia croata ignora questi fenomeni, e lo fanno pure coloro che criticano il regime comunista. Perché ancora oggi questa chiusura?

“La questione delle foibe, come anche il destino degli italiani della Croazia e della Slovenia dopo la Seconda guerra mondiale, sono un argomento che nel nostro Paese viene evitato per le stesse ragioni per le quali non si parla di altri simili casi. Oggi, quando la società, assieme alla storiografia, è comandata dal nazionalismo, la sofferenza di tutti coloro i quali non sono croati, rappresenta una realtà non interessante, irrilevante. La stessa identica cosa accade anche con la questione dell’Isola Calva. Se alla Croazia non importasse solo ed esclusivamente dei propri martiri e della loro sofferenza, allora in questo Paese in cui si attacca tutto ciò che ha a che fare con l’epoca titoista, si potrebbe anche parlare dell’Isola Calva. Ma dato che a Goli erano internati stalinisti, e quindi essenzialmente non croati, non sempre si ritiene opportuno parlarne. Il dogma in Croazia è importante soltanto se collegato alla sfera degli interessi e del denaro. È un modello che vale anche per la Chiesa, per i nazionalisti e per gli anticomunisti. Alla destra croata non è d’intralcio la prassi comunista che Tito sosteneva. È infastidita del fatto che questa non fosse rivolta contro i loro nemici”.

Quasi sempre si parla di ricongiungimento dell’Istria e di Fiume alla Madre patria croata. Secondo molti però sarebbe un falso storico, perché prima del ‘45/’47 non appartenevano alla Croazia. È una retorica strumentale?

“Ha ragione. C’erano molti croati che vivevano in Istria, ma le città erano italiane e il territorio non faceva parte della Croazia. Quest’affermazione vale anche per l’Alto Adige, che non era italiano, ma lo è diventato dopo la Prima guerra mondiale. Tantissimo di ciò che accade nella storia a volte non è giusto, ma semplicemente succede. Ecco perché è necessario sviluppare una società moderna e liberale, dove ogni forma di conflitto sarà affrontata con la cultura del dialogo”.

In Croazia sta nuovamente alzando la voce una destra bigotta e xenofoba. Che cosa possono fare gli storici per contrastare tale tendenza, che invece di farci progredire ci porta al regresso?

“Purtroppo è ciò che accade, ed è una tendenza molto preoccupante. In tutta l’Europa orientale siamo testimoni di un’ascesa di gruppi radicali, antiliberali, contro la civiltà. Per tutte le minoranze – come anche per quella italiana, bene affermata e bene organizzata, o come per quella rom, che ancora oggi è esclusa dalla società –, questo clima di persecuzione, radicalismo e di sospetto, è nocivo. Lo è specialmente per i diritti del mondo minoritario. Soltanto una collettività aperta, inclusiva, perspicace, che tende alla curiosità e al sapere, può sviluppare le fondamenta di una società giusta e all’avanguardia. Purtroppo da molti storici dell’Europa centrale e orientale, come anche da tanti di quelli della Croazia, non ci si può aspettare un contributo alla costruzione di una società aperta e moderna”.

La rinascita della destra estrema e xenofoba in Croazia, ha portato anche a una totale assenza del principio di laicità dello Stato. Quali sono i possibili scenari di sviluppo dovuti all’intromissione delle sfere religiose nell’ordinamento croato?

“La destra radicale, il nazionalismo più cieco, assieme ai partiti politico-religiosi, spronati a loro volta da un clero spesso completamente in funzione della politica, rappresentano un ambiente dannoso per le società moderna. Possiamo avere una società ideale soltanto se facciamo di tutto per ottenerla. Cosa che è completamente all’opposto del mondo xenofobo e clericale che permane ora. Tale atmosfera, oltre a essere particolarmente avversa alle minoranze, risulta a lungo andare anche disastrosa per l’intera popolazione”.

Lei ha studiato anche la Guerra patriottica croata. A suo avviso, si trattò di una guerra civile o di un’aggressione esterna?

“Entrambe le cose. È stata sia una guerra civile, sia una guerra d’aggressione e di ciò non si parla abbastanza. A mio parere il problema sta nel fatto che il metodo con cui veniva divinizzata e rappresentata la Guerra di liberazione nazionale in epoca jugoslava, è parso a molti il modello ideale per descrivere la Guerra patriottica. Come se nessun altro avesse mai scritto di tutto questo, come se si potesse perseverare con un’unica versione, ripetendo ciò che comoda soltanto a qualcuno”.

Quale ruolo hanno avuto secondo lei all’epoca le potenze straniere? Sembrerebbe che il bombardamento di Fiume sia stato sventato grazie all’intervento della diplomazia italiana.

“Ogni guerra locale è sempre un conflitto influenzato da forze straniere o vicine. Capita in Yemen, in Siria, e accadeva anche nelle guerre per l’eredità jugoslava. Probabilmente molte di queste influenze sono state positive, specialmente quando si parla di diplomazia silenziosa o di aiuti umanitari”.

“Za dom spremni” è un saluto storico o ustascia? È da vietare? Che cosa pensa della decisione della Corte costituzionale?

“È un saluto ustascia. Coloro che lo adoperano oggi – in forma cantata o usandolo in forma scritta nelle lettere di minaccia che ad esempio mi vengono indirizzate –, sono dei filo ustascia che aspirano alla riabilitazione del movimento nazionalista e fascista croato. Anche chi usava questo saluto negli anni ‘90, lo desidera fortemente. Non esiste una via di mezzo, nonostante la sua abietta relativizzazione arrivi dall’Accademia delle Scienze o dall’Ufficio del Presidente. È un saluto da vietare”.

L’apologia del movimento ustascia viene raramente perseguitata. Perché?

“La Croazia è un Paese nazionalista. Di conseguenza, nell’interpretazione nazionalista del mondo non esistono ‘grandi croati’ disdicevoli. Ecco il perché di tanta riluttanza a condannare ciò che è ingiustificabile agli occhi del mondo. Ciò porta anche a influenzare il sistema giudiziario, al punto da renderlo inefficace e sfuggente. Coloro i quali mi scrivono lettere anonime di minaccia con il saluto ustascia, fanno parte di una minoranza particolarmente rumorosa che rende la vita difficile alle persone. Lo Stato non sanziona questo comportamento e la parte della popolazione che la pensa diversamente non reagisce e sceglie di chiudersi in sé stessa”.

Qual è, secondo lei, il futuro delle minoranze? Sono destinate a una lenta assimilazione?

“Purtroppo, sono dell’avviso che essa sia inevitabile. Se guardiamo al passato dei nostri territori, la scomparsa delle minoranze è un fenomeno a cui assistiamo da decenni. È un fenomeno che ha decretato negli anni la scomparsa delle minoranze tedesche, italiane, serbe, ebraiche e turche. La cultura italiana è grande, vicina a noi e non credo che la piena assimilazione della minoranza italiana avverrà rapidamente. Però un domani ci saranno anche dei nuovi gruppi di persone. Così accade in Europa, e così succederà in Croazia. Prima ci rendiamo conto che le minoranze nella società aperta non rappresentano un pericolo, ma che tutelarle è il modo giusto per accettare più facilmente gli altri, più sarà facile per noi. Quanto più ci prenderemo cura delle nostre minoranze nazionali, tanto più facile risulterà l’integrazione di altre minoranze nel sistema croato e quindi l’estensione della sostenibilità del sistema pensionistico e di qualsiasi altro sistema”.

Mai come in questo momento si sta parlando del ripristino del bilinguismo a Fiume. Qual è la sua opinione?

“Il bilinguismo è a mio modo di vedere un fenomeno particolarmente interessante, soprattutto se implica in Croazia la conoscenza di una lingua così importante come l’italiano. Gran parte del nostro passato non può essere compresa senza conoscere la cultura e la lingua italiane, e qui non mi riferisco alla minoranza italiana. La conoscenza dell’Italia è importante per la Croazia per seguire gli sviluppi nell’ambito di una delle più importanti economie mondiali, in modo da poter seguire con facilità ciò che accade, ad esempio, nel settore del design o nella musica. La conoscenza della lingua italiana è importante anche nei rapporti finanziari. Se coloro che vivono nelle zone di confine con l’Italia sanno parlare anche l’italiano allora questa è una cosa utile, necessaria e benvenuta”.

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