Darko Jurković Charlie e il suono dell’anima

l grande musicista fiumano è stato insignito del premio «Porin» per la miglior performance jazz con «Cathedrals». In un'intervista spiega le caratteristiche del brano eseguito dal vivo, con la sola forza del suo strumento

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Darko Jurković Charlie e il suono dell’anima
Darko Jurković Charlie. Foto: ŽELJKO JERNEIĆ

Classe 1965, Darko Jurković Charlie, è una delle figure più luminose della scena jazz croata e internazionale. Ma la sua musica, colma di profondità, eleganza e ardore, parla da sé, rendendo superflue le presentazioni. Il suo viaggio nel mondo delle note inizia con il violino, ma è la chitarra, scoperta a sedici anni da autodidatta, a diventare il suo strumento dell’anima. Due anni dopo, l’incontro con il jazz segna il destino del giovane musicista, che troverà la sua voce più autentica nella tecnica del “two-hand tapping”, ispirata al leggendario Stanley Jordan. Suonare due chitarre è una scelta espressiva, un intreccio di voci capace di creare paesaggi sonori di straordinaria profondità. Dopo essersi diplomato con un master in jazz all’Accademia di Musica di Graz nel 1997, Jurković ha collaborato con artisti di fama internazionale e calcato i palcoscenici di prestigiosi festival, tra cui il celebre “Jazz Time” fiumano. Nove volte insignito del riconoscimento “Status” quale miglior chitarrista jazz croato, ha ricevuto due “Porin” e il premio Città di Fiume, incidendo album che raccontano la sua ricerca musicale tra assolo e dialogo strumentale. Con l’etichetta Sipa Music/Menart ha pubblicato “Trio, duo, solo”, un’opera che esalta il suo virtuosismo e la capacità di reinventare il linguaggio della chitarra jazz, esplorandone ogni sfumatura. Qualche giorno fa il suo percorso artistico ha ricevuto un nuovo, prestigioso sigillo, il “Porin” per la miglior performance jazz con “Cathedrals”, un brano eseguito dal vivo, senza sovraincisioni, con la sola forza del suo strumento. Un’opera di rara purezza, un tributo al fascino della musica nella sua forma più essenziale.

Un riconoscimento inatteso
Lo incontriamo in un dialogo intimo e sincero, in cui traspare tutta la sua umiltà e bellezza d’animo. “Nel profondo del cuore, speravo di vincere il premio – ci confida – eppure, avendo già ricevuto due o tre nomination in passato senza successo, mi ero ormai convinto che non sarebbe accaduto. Ricordo quei viaggi a Spalato o Osijek, qualche giorno di attesa, un barlume di speranza… e poi il ritorno a casa a mani vuote. Quel rituale mi lasciava con un senso di frustrazione sommessa. Così, stavolta, con una sola candidatura, mi ero ormai convinto che non avrei vinto, non sono neppure andato a Karlovac per la cerimonia e ho scoperto di avere ricevuto il ‘Porin’ dalla televisione. Ancora non ho ricevuto fisicamente la statuetta, ma per me ha già un valore immenso. Nel jazz, è raro che venga premiato un chitarrista, e ancor più insolito che a trionfare sia un’opera solista, priva del consueto sostegno di un ensemble. ‘Cathedrals’ è un dialogo interiore, un viaggio musicale in cui la chitarra è la mia unica compagna. Ho composto, eseguito e inciso tutto da solo. È la mia ricompensa più autentica. C’è infatti un’idea ancora piuttosto radicata secondo cui il jazz debba necessariamente essere un’esperienza collettiva, costituita da batteria, fiati e da un interplay costante tra musicisti. Ma questo album dimostra che lo stesso può anche essere un’esperienza solitaria, un cammino interiore senza bisogno di sostegni esterni”.

Creatività senza regole
La composizione premiata fonde armoniosamente jazz e musica classica. Ha dovuto affrontare difficoltà tecniche e/o emotive nel corso della sua creazione?
“In origine era solo un esercizio tecnico per la mano destra, che in seguito, a poco a poco, si è evoluto in qualcosa di più strutturato. Il titolo è arrivato da sé in quanto quella melodia evocava le grandi architetture sacre. Pur essendo un jazzista, ho un amore profondo per la musica classica, soprattutto per il periodo barocco, non solo Bach, ma anche quei compositori italiani, francesi e tedeschi che hanno segnato la storia con la loro maestria. Quanto alle difficoltà, direi che non ne ho avvertite in modo particolare. Comporre, per me, è come esplorare un territorio pieno di possibilità. Non importa se una prima versione non convince: bisogna scuoterla, rielaborarla, guardarla da diverse prospettive. Pensiamo a Beethoven, il quale rimaneggiava incessantemente i suoi motivi, non per cambiarne l’anima, ma per trovarne la perfezione. Credo che questa sia l’essenza della composizione”.

Com’è nato il brano?
“Il processo compositivo per me è un atto naturale e ‘Cathedrals’ è emersa così, senza forzature. Ogni mia creazione nasce in modo diverso a seconda dell’ emozione del momento, dell’ambiente, da una parola ascoltata per caso, da un ricordo. Quando collaboro con Laura Marchig, talvolta lei mi affida il testo, che leggo più volte, con profonda attenzione, cercando di penetrarne l’anima. Ne assaporo il senso, ma anche la musicalità nascosta e lo stesso diventa una partitura invisibile da cui il suono prende forma. In altre occasioni è lei ad adattare lo scritto ai miei brani. È un bellissimo lavoro di squadra. Ogni lingua, poi, ha un respiro unico, un’essenza inconfondibile. È come nella musica brasiliana: una bossa nova in portoghese ha un’anima diversa rispetto alla sua versione in inglese, e in tale senso ‘Garota de Ipanema’ e ‘Girl from Ipanema’ sembrano la stessa canzone, eppure appartengono a due universi sonori profondamente differenti”.

Cosa influenza il suo momento creativo? L’ispirazione, lo stato d’animo, il contesto?
“Non esiste una formula. Io non mi siedo dicendo – ‘Ora compongo’ –. Le idee arrivano quando vogliono: mentre guido, mentre cammino, mentre osservo il mondo. Il punto è saperle cogliere, fermarle subito. Sono fugaci, leggere come il vento. Se non le afferri, svaniscono”.

Immagini in musica
Nel suo album “Trio, duo, solo”, che ospita anche “Cathedrals”, esplora diversi formati e collaborazioni. In che modo ciò ha influenzato la sua visione del jazz e della composizione?
“Ottima domanda. La mia visione musicale nasce sempre da un’immagine mentale. Prima immagino ciò che posso suonare da solo con le mie due chitarre. Se il risultato mi convince, e se il pubblico risponde positivamente, allora penso a come potrei espanderlo, arricchirlo con altri strumenti e arrangiamenti. Ma a volte accade il contrario e posso ridurre l’ampiezza orchestrale in un’esecuzione intima. Bach era un maestro in questo: sapeva dilatare e restringere l’idea musicale mantenendone intatta l’essenza”.

La tecnica del “two-hand tapping” è diventata una sua cifra stilistica. Come si riflette nella costruzione di pezzi come “Cathedrals”?
“È una libertà straordinaria. È come suonare il pianoforte, dove con la mano destra sviluppo la melodia, con la sinistra l’accompagnamento. Nella chitarra è più complesso, ma il tapping permette di creare un dialogo simultaneo tra le voci. Nel brano questa tecnica genera un’architettura sonora che richiama le grandi cattedrali”.

Note sacre e intimità sonora
Nella composizione si percepisce una ricerca di ispirazione spirituale attraverso la musica. Quanto del suo percorso personale vi è riflesso?
“La musica è lo specchio della nostra esistenza. Tutto ciò che viviamo, pensiamo, sentiamo trova espressione nelle note. Siamo costantemente attraversati da influenze invisibili e la musica diventa il linguaggio con cui restituiamo al mondo quel passaggio interiore. Anche quando non ce ne accorgiamo, viviamo immersi in un paesaggio sonoro: basta entrare in un caffè, e una melodia ci sfiora l’orecchio, e se bella, si insinua dentro di noi, lasciando una traccia. La musica non ha corpo, è impalpabile come l’aria, eppure necessaria. Ma oggi, con dispiacere, noto che la qualità musicale è spesso sacrificata. Un tempo la musica era un atto collettivo, un’intesa spontanea tra esseri umani che si ascoltavano e si univano nel suono. Oggi, troppo spesso, è soltanto un prodotto confezionato e il talento individuale sembra essere relegato all’ultimo posto”.

Il brano evoca atmosfere acustiche che ricordano l’ambiente di una chiesa…
“Esattamente. L’effetto di riverbero prolungato, quel suono che si espande nello spazio, richiama l’atmosfera di una chiesa. Quando si abbassa il suono e il tono persiste nel tempo, si sente quell’aura spirituale. È anche per questo che ho scelto il titolo ‘Cathedrals’. Ricordo con emozione un concerto tenuto una quindicina di anni fa in una magnifica chiesa nei pressi di Gorizia, in Italia. Il suono era talmente puro e naturale che non serviva alcuna amplificazione o effetto artificiale. Non ho mai più provato una sensazione acustica tanto perfetta”.

Esiste un luogo ideale per l’esecuzione della sua musica?
“Per me il luogo perfetto è quello in cui il suono è impeccabile. Oggi si tende a suonare a volumi eccessivi, in ambienti costruiti secoli fa, che non erano pensati per questa intensità sonora. È un paradosso. Occorre avere la consapevolezza di conoscere il limite oltre il quale il suono si distorce, diventa fastidio. Noi suoniamo per la gente, ma anche per noi stessi. Se non proviamo piacere nel farlo, difficilmente lo trasmetteremo. Quanto al pubblico, sono molto rigoroso, nel senso che preferisco suonare per tre persone in ascolto, attente e partecipi piuttosto che per 500 distratte. L’energia dell’ascoltatore nutre quella dell’esecutore”.

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