
“È stata una settimana magnifica durante la quale ho visto un sacco di film e conosciuto tanti registi e produttori. ‘Trust issues’ è una commedia che tratta tematiche queer come ‘Drunken noodles’. La sua particolarità risiede nel fatto che, per essere un cortometraggio, è stata girata con una produzione grandissima e superiore persino a quella di ‘Fin de siglo’ e ‘Drunken noodles’, due dei miei tre lungometraggi”.
Quali emozioni ha provato nel momento in cui ha saputo che “Drunken noodles” era stato ammesso nella sezione parallela dell’ACID Cannes 2025?
“Orgoglio e felicità allo stato puro. Presentare un film a Cannes è il massimo per qualsiasi regista. Qualche settimana dopo aver inviato la candidatura mi è stato riferito che il film fosse stato particolarmente apprezzato e questo mi ha dato coraggio. Quando ho ricevuto la conferma dell’ammissione mi sono letteralmente commosso nel leggere i commenti entusiasti di tutti i membri del comitato di selezione”.
Cosa vuole comunicare al pubblico con il suo nuovo lungometraggio “Drunken noodles”?
“Il film è un invito a scoprire la bellezza di connettersi con il prossimo. Credo davvero che connetterci con chi ci sta intorno sia la cosa più importante che come esseri umani possiamo fare. Soltanto così riusciremo a lasciarci andare, a valorizzare le diversità, ad abbattere qualsiasi barriera e frontiera. Nello specifico, questo lungometraggio si concentra su una connessione sessuale che accade quasi per caso. Ci sono incontri che sono in grado di cambiare le nostre vite”.
Quali sono i tratti distintivi del protagonista del film?
“Adnan è un personaggio smarrito. Mi piace tanto questo tipo di personalità perché sono più aperte alla grazia del mondo e alle opportunità della vita. Se all’età di 20 anni sei già centrato e per te esistono soltanto casa, università e palestra rischi di crescere con una mentalità chiusa e, soprattutto, con tanti pregiudizi”.
Il suo lungometraggio d’esordio “Fin de siglo” è stato presentato al Torino Film Festival: come si è trovato in terra piemontese?
“È stato uno dei festival più belli a cui abbia partecipato. Ho scoperto che Torino è una città davvero cinefila. Se a Cannes si avverte il fascino dell’industria cinematografica, della location e dell’attenzione mediatica, a Torino si sente l’amore della gente per il cinema. Il pubblico viveva intensamente ogni proiezione e anche il party di chiusura è stato spettacolare”.
Si aspettava che il suo primo lungometraggio ottenesse tanto successo?
“È stata una bella sorpresa anche per me. La prima mondiale è avvenuta al MoMA di New York, la città in cui vivo da tanti anni, nel marzo 2019. Poco più di una settimana dopo è stato premiato come miglior film argentino al Festival del Cinema indipendente di Buenos Aires, la mia città natale. L’ho girato a Barcellona senza conoscere la città, ma tanti abitanti del posto mi dicono che sono riuscito a riprenderla con gli stessi occhi di un catalano. Sono affezionato a ‘Fin de siglo’ perché mi consente ancora oggi di connettermi con tantissime persone, molte delle quali mi contattano anche sui social per congratularsi”.
Pochi mesi fa il suo secondo lungometraggio “After this death” è stato protagonista alla Berlinale: com’è andata?
“Anche Berlino, come Torino, è una città che vive di cinema e che possiede tante belle sale cinematografiche. Gli organizzatori hanno supportato come meglio non potevano la mia pellicola e questo mi ha reso tanto felice perché è un film molto personale che trae spunto dalla morte di mia madre. Avevo in testa questo film da circa dieci anni tanto che l’ho scritto persino prima del mio primo lungometraggio. Da Mia Maestro a Lee Pace, passando per Rupert Friend e Gwendoline Christie, posso dire di aver lavorato con un cast magnifico, oltre che con una grande produzione”.
Ha origini italiane dal ramo paterno: cosa ne pensa dell’Italia e del cinema italiano?
“Federico Fellini, Michelangelo Antonioni e Pier Paolo Pasolini sono tre divinità per me. Metà del mio sangue è italiano e cerco di andare in Italia ogni volta che ne ho la possibilità. Adoro il cibo, la gente e anche la moda italiana. Non a caso ho lavorato come fashion designer per Armani”.
A proposito, com’è nata la sua passione per il fashion design?
“Dopo gli studi cinematografici in Argentina mi sono trasferito a New York. Nel cinema i tempi di preparazione sono lunghissimi e in quel momento avevo fretta di lavorare. Così, seguendo le orme di un amico, mi sono iscritto a una scuola di moda. Mi affascinava tanto il fatto che la moda, al contrario del cinema, corra veloce. Così ho lavorato come fashion designer per quasi vent’anni. È stato molto gratificante occuparmi di abbigliamento maschile per Marc Jacobs, Armani e DKNY, ma in cuor mio sapevo che avrei voluto tornare a fare cinema. Oggi sono felice di essere tornato alla mia prima passione e insegno come professore di cinema alla Tisch School of the arts della New York University”.
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