
Certe serate accadono solo una volta l’anno, ma restano nel cuore molto più a lungo. Così è stato lo scorso fine settimana alla Casa di cultura di Castelvenere, quando la 25ª edizione della “Sparisada” ha acceso l’anima del paese con un concerto che aveva il sapore buono delle cose vere, delle radici che non si spezzano mai. È stato un viaggio, quello che queste voci hanno fatto percorrere, che non ha richiesto né valigie né confini, ma solo ascolto e cuore aperto. Dai canti dalmati a quelli istriani, dalle melodie popolari slovene agli echi italiani, ogni brano è stata una finestra su un tempo sospeso, dove la nostalgia non ha fatto male ma ha consolato, dove l’identità non ha diviso ma abbracciato.
Il gruppo vocale maschile “Klapa Castrum Veneris” della locale Comunità degli Italiani, ideatrice e custode di questo incontro d’incanto, ha aperto il cammino, tessendo le prime trame di un racconto fatto solo di voci, senza strumenti, senza artifici. Diretta da oltre un decennio dal Maestro Teo Biloslavo, figura di riferimento nel panorama del canto corale tradizionale, la formazione ha saputo ancora una volta dimostrare la sua straordinaria capacità di raccontare storie senza tempo attraverso la sola forza delle voci. Con una formazione recentemente arricchita ha presentato un’esibizione vibrante e coinvolgente. I nuovi membri, seppur da pochi mesi integrati nel gruppo, hanno portato un soffio di freschezza e una ricchezza timbrica che si è subito fatta sentire, amalgamandosi con l’esperienza degli altri componenti. Il programma della serata si è aperto con “Molighe l’fil che l’svoli”, un canto tradizionale che, con la sua dolce malinconia, ha immediatamente catturato l’attenzione. Le voci si sono intrecciate in un delicato equilibrio di suoni, evocando immagini di antiche usanze e paesaggi senza tempo. A seguire, “Sjaj miseče”, uno dei brani più amati della tradizione dalmata, ha portato con sé l’incanto delle notti illuminate dalla luna e il profumo salmastro del mare. Qui i “Castrum Veneris” hanno dato prova della propria maestria interpretativa dove ogni nota, ogni armonia, sembrava sussurrare storie di amore, nostalgia e appartenenza. Numerosi sono stati poi gli ospiti sul palcoscenico.

Serata di pura magia
Il gruppo vocale “Ad Libitum” della Comunità degli Italiani di Verteneglio, diretto dalla maestra Dionea Sirotić, ha saputo ancora una volta incantare il pubblico, regalando una serata di pura magia, fatta di voci intrecciate, sorrisi sinceri e sogni diventati musica. La loro storia è quella di sei ragazze cresciute insieme, spinte dalla stessa passione, capaci di attraversare confini, culture e oceani con la forza limpida del loro canto a cappella. Dall’Istria agli Stati Uniti, passando per la Svezia e l’Austria, ogni loro nota porta con sé l’eco di viaggi lontani e di conquiste importanti. Per l’occasione, il loro repertorio ha attraversato emozioni diverse, aprendo con la dolcissima “Run to You” dei Pentatonix, dove la perfezione delle armonie ha saputo toccare corde intime, come un abbraccio inaspettato in un giorno difficile. Con “Englishman in New York” di Sting, invece, hanno acceso il sorriso del pubblico grazie ad un’esibizione vivace, fresca, elegante, che ha reso omaggio alla capacità tutta loro di essere leggere senza mai essere superficiali, di portare sul palco la gioia semplice di essere sé stesse, fiere della propria unicità.

Mosaici di voci diverse
Il quintetto “Molet” è caratterizzato da cinque voci, cinque cuori istriani, uniti da un legame profondo con la propria terra e con la musica che la racconta. Tutto è iniziato poco più di un anno fa, quando su invito di Stevo Vujič, secondo tenore e anima del gruppo, i membri si sono ritrovati nell’ufficio del Mandracchio a Capodistria. In quel momento semplice, tra chiacchiere e sogni condivisi, è nato il “Molet”. Stevo Vujič da Capodistria, Aleksandar Pavletić da Pinguente, Edvin Panger da Corte, Leon Bučar da Isola e Teo Biloslavo da Castelvenere, formano un mosaico di voci diverse, ma con la stessa terra nei passi e nel respiro. Il programma scelto non poteva che essere un omaggio al canto istriano con melodie antiche, intime, nate dalla fatica, dall’amore. L’esibizione si è aperta con “Zmeron moja”, un brano di Rudi Bučar che parla d’amore con la sincerità schietta di chi conosce il valore delle cose semplici, sospese tra malinconia e speranza. Poi è stata la volta di “Kemu si dala rožice”, un canto popolare istriano riarrangiato sempre da Bučar. Con la loro dedizione al repertorio istriano, ma anche l’apertura verso i canti sloveni e dalmati, i cinque istriani portano avanti una tradizione viva, che non si limita a custodire il passato, ma sa rinnovarsi, crescere, emozionare.

Cantare sempre con il cuore
La “Klapa Solinar” di Capodistria ha regalato al pubblico un’esibizione nell’anima dalmata, un omaggio all’amore per il canto e alla gioia dello stare insieme. Il gruppo nei suoi diciassette anni di attività ha vissuto nel tempo diversi cambiamenti, soprattutto nella formazione, ma ha sempre conservato intatto il suo spirito originario: quello di cantare con il cuore, mantenendo viva la tradizione e l’amicizia che lega i suoi membri. La direzione artistica è affidata alla prof.ssa Maja Cetin, che guida il gruppo con maestria. Hanno costruito un repertorio che abbraccia principalmente brani dalmati, ma che si apre con sensibilità anche a melodie slovene, istriane e italiane. A Castelvenere hanno saputo esprimere tutto questo con due brani che sembravano pulsare di vita propria. “Ju te san se zajubija”, nella raffinata rielaborazione di Ljubo Stipišić, ha aperto il cuore degli ascoltatori raccontando l’innamoramento con la semplicità disarmante delle cose vere. Con “Momen dragu prva mu je leva”, un altro canto tradizionale dalmata, la “Solinar” ha saputo infondere energia e leggerezza, facendo emergere la vitalità spontanea che caratterizza i momenti più gioiosi della tradizione popolare.

Femminilità antica e fiera
La “Klapa Fortuna”, giovane e già così intensa, ha ricordato che la tradizione può essere anche femmina, audace e tenera allo stesso tempo. Composta da sette donne che, sotto la guida di Teo Biloslavo, hanno trasformato il palco in una riva battuta dal vento e dalla memoria. Attiva nella Società culturale croata “Istra” di Pirano, la “Fortuna” ha aperto l’esibizione con “Maslina je gora”, canto della terra e dell’anima, in una trascrizione raffinata di Ljubo Stipišić. È seguita “La musica di notte”, una carezza sussurrata nell’oscurità, con le parole di Nenad Miletić e le note di Đelo Jusić, arricchite dall’arrangiamento sensibile di M. Petvar. In quella musica la notte sembrava davvero prendere vita, tra desideri taciuti e sogni che scivolano come stelle nel mare. Un’esibizione che è stata come una celebrazione di una femminilità antica e fiera, che canta senza paura, con la forza e la grazia di chi conosce il valore del silenzio tra due note.

Tra profumi di mosto e mare
A concludere è stato il suono della “Klapa Pinguentum”, sette amici, sette voci che da trent’anni custodiscono un modo antico di essere, di sentire, di vivere il canto. Tutto cominciò in una taverna, tra pietre che odoravano di mosto e di mare lontano. Lì, nel silenzio complice delle mura antiche, si intrecciarono per la prima volta le loro voci, spontanee, libere, inseguendo l’armonia come si insegue un vento buono. Quel piacere semplice, irripetibile, li guidò poi a riunirsi sotto l’ala della Società musicale “Sokol”, dove la loro passione divenne promessa. Sotto la guida sicura del direttore artistico Sanjin Radović, la Klapa Pinguentum ha regalato al pubblico frammenti di eternità. Con “Na visokoj jeli” e “Picaferaj”, canti antichi che profumano di resina, le loro voci si sono sospese dove ogni nota era un battito di memoria.

Abbraccio corale
A rappresentare la Comunità degli Italiani di Castelvenere è stata anche la vicepresidente Marvi Krenek, testimone di un impegno che, anno dopo anno, rinnova la promessa fatta alla memoria, alla cultura, alla bellezza, quest’anno presentata da Elizabeth Belle’ e Petra Jermaniš. Non è mancato il gran finale a voci unite con il brano “Vilo moja” di Vinko Coce. Ogni canzone è stata un pezzo di viaggio, una pagina di un diario scritto con note invece che parole, dove si leggono i momenti di fatica, le risate, le attese e i traguardi raggiunti con il coraggio di chi sa che la musica è, prima di tutto, libertà. Quindi un concerto che si può definire come un abbraccio corale, un intreccio di destini e di voci che hanno raccontato chi siamo stati, chi siamo e chi, ostinatamente, vogliamo continuare a essere. È stata la prova che la musica, quella che nasce dalla verità di una comunità, non si esaurisce mai, ma cresce, si rinnova e continua a parlare, anche molto tempo dopo che l’ultima nota si sia spenta nell’aria.
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