Boris Akunin: «Mi manca una Russia che non esiste più»

Chiacchierata con lo scrittore e ospite della Fiera del libro e Festival dell'autore «Vrisak», che sta preparando un libro che avrà tra i suoi protagonisti anche Fiume

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Boris Akunin: «Mi manca una Russia che non esiste più»
Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

Avere l’opportunità di parlare con un autore che apprezziamo, del quale abbiamo letto tutto quello che ci è venuto sotto mano, è un vero e proprio privilegio. Abbiamo avuto questa fortuna nell’ambito della Fiera del libro e Festival dell’autore “Vrisak”, che si svolge fino al 21 settembre a Fiume, tra i cui protagonisti si è trovato il celebre scrittore e dissidente russo Boris Akunin, un autore che ha entusiasmato e continua a entusiasmare i lettori croati con i suoi gialli, di cui una serie vede in veste di protagonista il detective dandy Erast Fandorin e un’altra la suora Pelagija. Si tratta di personaggi che richiamano chiaramente i celebri Hercule Poirot e Miss Marple della grande Agatha Christie, ma che, invece che nell’Inghilterra della prima metà del XX secolo, svelano i misteri nella Russia imperiale della fine del XIX secolo. Lasciando in disparte la trama dei suoi gialli, che è sempre avvincente e ricca di sorprese, ciò che colpisce nella sua scrittura è l’ampiezza della cultura e delle conoscenze che traspaiono da ogni frase di questo straordinario autore. In una breve intervista, abbiamo colto l’occasione di fargli le domande più disparate alle quali, con il suo fare tranquillo, serio, ma anche pieno di spirito, ha risposto con grande disponibilità.

Visto che partecipa raramente ai festival letterari, come mai ha deciso di fare un’eccezione e venire a Fiume come ospite di «Vrisak»?
“L’invito di partecipare al festival ha coinciso con i miei piani, in quanto proprio questo autunno avevo intenzione di venire a Fiume per un lungo viaggio con diverse tappe in questa parte d’Europa, nell’ambito delle mie ricerche legate al nuovo libro che sto scrivendo e che si occupa dell’epoca intorno al 1919 e delle vicende legate a Gabriele d’Annunzio. Avevo bisogno di visitare questa città perché ho intenzione di scrivere della Fiume di quell’epoca e di d’Annunzio, per cui avevo bisogno di vedere dal vivo i luoghi in cui si sono consumati i fatti storici. Non si tratta di un romanzo, ma di un libro specifico che conterrà sia segmenti romanzati che fatti storici. Passeggiando per Fiume cerco di immaginare come essa si presentava nei primi decenni del Ventesimo secolo, all’epoca che mi interessa, quindi cerco di ‘cancellare’ dalla mente gli edifici che sono stati costruiti in epoche più recenti”.

Dopo aver lasciato la Russia dieci anni fa, ha vissuto in Franca, Spagna e in seguito in Gran Bretagna, stabilendosi poi a Londra. Per quale motivo ha scelto di stabilirsi proprio nella capitale britannica?
“Londra mi è sempre molto piaciuta. È un posto fantastico per scrivere ed è una città particolare. È l’unica grande città che conosco in Europa in cui non ha nessuna importanza da dove una persona provenga. Vi vivono tantissimi expat e i londinesi sono così abituati a vedere persone di origini diverse attorno a sé che chiunque vi si può sentire come a casa sua. Amo Londra”.

Fa parte della scena letteraria londinese, ha contatti con i colleghi scrittori?
“Non proprio. La mia professione è molto solitaria, trascorro la maggior parte del tempo da solo. Ho degli amici, ma non spendo molto tempo a socializzare. Scrivo tutti i giorni”.

Le sue giornate sono organizzate, ha degli orari predefiniti in cui si dedica alla scrittura, oppure ogni giorno è diverso?
“Direi che seguo degli orari, ma non si tratta di una cosa organizzata. Fare lo scrittore è un’ottima professione perché nessuno ti costringe a lavorare. Hai la libertà di alzarti quando vuoi la mattina; se quel giorno non te la senti, non sei tenuto a scrivere… ma io ho sempre voglia di scrivere. Non so cos’altro farei nella vita. Sono diventato scrittore piuttosto tardi, all’età di quarant’anni. Prima mi occupavo di traduzioni, di critica letteraria e qualche anno prima di diventare scrittore pubblicai un articolo nel quale dichiaravo che la narrativa fosse morta e in cui dicevo di non capire per quale motivo le persone continuavano a scrivere romanzi alla fine del XX secolo. E ora eccomi qui, ho finito per contraddire me stesso. Succedono delle cose strane ai maschi quarantenni”.

Le manca la Russia?
“Credo che mi manchi una Russia che non esiste più. La città di Mosca che amavo non c’è più e non vorrei vederla oggi, con tutti quei manifesti che invitano a prendere parte alla guerra in Ucraina, che glorificano Putin… no. Inoltre, la maggior parte dei miei amici se n’è comunque andata”.

Qual è la Mosca che lei ricorda e ama?
“Ho vissuto abbastanza da ricordare diverse sue fasi. La ricordo durante l’epoca sovietica, quando era il posto più noioso del mondo. All’epoca in città non accadeva nulla, regnava una noia mortale. Tutto era monotono, uggioso. Quando ero giovane, credevo che sarei morto in quel luogo tedioso, senza aver mai l’opportunità di andarmene. Non c’era speranza. I russi della mia generazione erano uomini giovani e al contempo vecchi: cinici, senza sogni e desideri. Non era un luogo felice, ma non era nemmeno l’’impero del male’, come Reagan lo descrisse a suo tempo. Era invece un ‘impero della noia’.
Poi, negli anni Ottanta accadde il miracolo. All’epoca di Gorbačov, Mosca divenne un posto straordinariamente interessante. Tutti erano euforici. Ricordo quei tempi molto bene, all’epoca iniziai a lavorare in una rivista letteraria e iniziai a scoprire nomi nuovi e a tradurre opere dall’estero. Erano tempi fantastici. Negli anni Novanta, invece, Mosca si era trasformata in una città in tumulto e pericolosa, c’erano proteste, la povertà. Poi cambiò di nuovo e ridiventò un luogo interessantissimo. C’era tantissima creatività, emergeva la classe media la quale era affamata di cultura, di letteratura, musica, arte. E infine arrivò Putin, che come un ragno iniziò a tessere la sua ragnatela, soffocando la vita in Russia. Egli teme per la sua vita e ha ogni motivo per temere, per cui deve fare molta attenzione. Vorrei che un giorno finisca in tribunale per rispondere di tutte le sue malefatte”.

Lei teme per la sua vita?
“No”.

L’altra sera ha parlato della letteratura russa, che ha dato al mondo dei veri e propri capolavori, e si è soffermato su Dostojevskij dicendo che lo trova irritante e che non è d’accordo con tantissime opinioni di questo scrittore. Quali sono queste opinioni?
“Non sono d’accordo con quasi nessuna sua opinione. Dostojevskij come giornalista e pubblicista era un reazionario, antisemita, xenofobo (odiava tutte le nazionalità, salvo quella russa), era amico delle persone peggiori nella politica russa, ma al contempo era un genio e quando scriveva opere di narrativa – come spesso succede con i grandi scrittori – era molto più buono, intelligente e saggio che come essere umano. Sembra quasi che durante la scrittura sentisse delle voci e le mettesse su carta. In questo contesto era straordinario. Era sincero e pieno di passione. Non posso dire che mi piace Dostojevskij, ma lo trovo stimolante e questo è secondo me l’aspetto più importante di un’opera d’arte. Se un’opera mi stimola, anche se non mi piace affatto, è un’opera d’arte. Se mi lascia indifferente posso magari rispettarla, ma per me si tratta di ‘arte morta’. Naturalmente, si tratta di opinioni completamente personali”.

Durante la stesura della storia della Russia in venti volumi, un progetto enorme del quale ha pure parlato l’altra sera, ha spiegato di essersi chiesto come mai la Russia finisca sempre a trasformarsi in una dittatura, o qualcosa di molto simile a una dittatura. È riuscito a trovare una possibile risposta a questo fenomeno?
“Certo che ho una possibile risposta. Direi che la causa di questo fenomeno sia la struttura dello Stato russo fin dai suoi inizi, che era sempre gerarchica. Tutte le decisioni venivano sempre prese al vertice e mai discusse. Questo era l’unico modo di tenere insieme un Paese così enorme. E ogni volta che c’era una rivoluzione o una riforma che cercava di cambiare questa struttura il sistema iniziava a crollare con rivolte, scioperi e proteste. Di conseguenza, l’élite prendeva paura e per risolvere la situazione ricreava in fretta la medesima gerarchia. Questo processo si è ripetuto innumerevoli volte nella storia russa e l’ultima volta si è verificato letteralmente dinanzi ai nostri occhi, negli anni Novanta, quando con il disfacimento dell’Unione sovietica venne ricostituita la Polizia segreta, l’armata, vennero soppresse la libertà di stampa e le elezioni parlamentari… Tutto questo non è successo a causa della malvagità di Putin – il quale all’inizio non era nemmeno così, lo ricordo bene –, ma perché egli si è adeguato alla situazione e questa è iniziata a piacergli. Con il tempo le cose hanno degenerato e purtroppo continueranno a degenerare”.

Secondo lei, c’è speranza che la Russia divenga uno Stato davvero democratico in futuro?
“Credo che questo probabilmente non potrebbe accadere in tutto il Paese. Molto probabilmente, la Federazione russa si dissolverà ancora una volta in seguito a una grande crisi economica o qualcosa del genere. Questo attuale è un sistema molto fragile e non è indipendente, come lo era a suo tempo l’Unione sovietica. La Federazione dipende molto dalle importazioni, dal denaro preso in prestito. Di conseguenza, se si dissolve, credo che vedremo una replica della guerra nell’ex Jugoslavia, ma su un territorio infinitamente più grande e con conseguenze per tutto il pianeta, dal momento che qui ci stanno di mezzo le armi nucleari. Questo è un grande pericolo per tutto il mondo, per cui credo che i leader occidentali non vogliano veramente che Putin perda il potere, in quanto temono che la situazione potrebbe degenerare ulteriormente con conseguenze disastrose per l’umanità intera. Credo, pertanto, che le sanzioni imposte alla Russia siano soltanto una scena”.

Nel corso della sua carriera si è occupato molto di traduzione dal giapponese. Da dove questo amore per questa cultura?
“Fin da bambino ero affascinato dal Giappone, in quanto crescendo nell’Unione sovietica, esso mi appariva un Paese lontano come Marte. Ero interessato a questo universo lontano e desideravo conoscerlo meglio. Con il tempo imparai la lingua e studiai anche per un periodo in Giappone. Di questa cultura mi piace innanzitutto l’estetica basata sul minimalismo, la bellezza della semplicità. Un’altra cosa che imparai da giovanissimo e che mi aiutò molto è il fatto che per i giapponesi la vita è qualcosa che accade qui e ora. Infatti, l’Occidente tende a vedere la vita come qualcosa che deve essere pianificato e che deve avere una ragione e uno scopo. Nel pensiero giapponese, invece, non è importante lo scopo, ma il modo in cui questo viene raggiunto”.

Parlando di pianificazione, quando scrive un romanzo, questo è già completato nella sua mente, oppure esso si sviluppa durante la scrittura?
“Ho scritto tanti romanzi finora e ciascuno era diverso, come pure il mio approccio alla sua stesura. Ho provato diversi metodi. Ovviamente, dipende anche dal genere di romanzo che scrivo. Se mi sto occupando di un giallo, allora è per forza tutto pianificato, come un’architettura, ma se scrivo altri generi tendo a sperimentare approcci diversi. A volte inizio a scrivere non sapendo dove mi porterà la storia. Quindi, ogni nuovo libro è una sfida, forse perché cerco di fare qualcosa che non ho fatto prima.
Il libro che sto preparando in questo momento e per il quale sto facendo delle ricerche che coinvolgono anche Fiume, rientrerà in un genere che non esiste, ovvero fonderà i fatti storici con quelli inventati e quant’altro”.

Quando immagina i suoi personaggi, come ad esempio Fandorin o Pelagija (protagonisti dei suoi gialli più famosi), questi sono già delle persone con le loro caratteristiche particolari, oppure essi si evolvono assieme alla storia?
“Di solito, un romanzo inizia con un’idea e con una domanda alla quale devo dare una risposta. Questo è quindi il seme da cui tutto germoglierà. Poi mi occupo dell’ambientazione nel tempo e nel luogo, della trama generale senza i particolari, mentre la fase successiva sono i personaggi. Quindi, inizio a immaginare i miei protagonisti e a renderli vivi. Il loro aspetto, il loro comportamento, la loro storia di vita… Devo sapere tutto di loro. Nell’ultima fase, devo capire qual è il loro nome, che è un processo lungo. Questa fase è molto delicata perché se do un nome sbagliato al mio personaggio esso non diventerà vivo. Una volta che ho dato loro un nome, essi diventano vivi e cominciano a interagire con gli altri personaggi e a guidare la storia. Io devo soltanto seguirli e la storia si costruisce da sola”.

Che cosa fa quando non scrive? Come si rilassa?
“La mia giornata inizia con la scrittura, dopodiché mi rilasso passeggiando o facendo un giro in macchina. Al pomeriggio forse lavoro a qualcosa di meno impegnativo, mentre di sera amo divertirmi con i videogiochi, a trascorrere un po’ di tempo con i miei amici, oppure a guardare le serie televisive. Sono appassionato di questo genere televisivo perché ritengo che sia il fenomeno più interessante della televisione attuale. È straordinario il numero di persone di grande talento che vi lavorano. Mi interessa molto ciò che succede in questo campo. Ho apprezzato molto la serie ‘Fargo’, come pure le serie western moderne”.

In questo contesto, vorrebbe vedere i suoi libri trasposti sul grande schermo o in televisione in Occidente, visto che in Russia i suoi libri hanno già delle versioni cinematografiche? Chi potrebbe recitare Fandorin o Pelagija?
“Fandorin è un personaggio che invecchia di romanzo in romanzo, per cui non lo potrebbe recitare un unico attore. Comunque, ci sono tantissimi attori bravissimi che potrebbero recitare sia Fandorin che Pelagija”.

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