Aprirsi alle diversità è difficile, ma inevitabile

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Aprirsi alle diversità è difficile, ma inevitabile

L’emergenza migratoria bussa alle porte della Croazia e della Slovenia. Finora assistiamo a fenomeni di chiusura nei confronti dei migranti, tipici peraltro per tutti i Paesi in transizione. I profughi sono i benvenuti di solito soltanto se sono di passaggio e si dirigono verso l’Europa occidentale. In quel caso si è soliti anche fare ponti d’oro. Ma di fronte alla prospettiva che essi rimangano “parcheggiati” da queste parti e ci sia la necessità di provvedere alla loro integrazione la situazione cambia radicalmente. Alcuni anni fa, nel bel mezzo della crisi innescata dall’apertura travolgente della rotta balcanica, in Croazia si faceva sommessamente presente ai maggiorenti europei che qui vi era una percezione diversa del fenomeno, a causa degli strascichi dell’ultimo conflitto segnato da sconvolgimenti etnici. Come dire, l’idea di amalgamarsi con appartenenti a etnie diverse, appariva molto più complessa rispetto all’idea che del problema si aveva allora in Occidente.

Ma ormai anche da quelle parti c’è chi teme che alla lunga si arrivi a una perdita dell’identità nazionale e culturale dei Paesi del Vecchio continente e parla addirittura di invasione da fermare.

Calo demografico

D’altro canto, però, anche la Croazia deve fare i conti con un fenomeno tipico dell’Occidente avanzato, quello dell’inarrestabile calo demografico e dell’invecchiamento della popolazione. A cui si aggiunge l’esodo strisciante della popolazione verso Paesi che offrono salari migliori. Ecco così che al calo del numero degli abitanti si aggiunge un altro fenomeno in grado di bloccare la crescita economica e mettere in crisi anche le imprese più floride, quello della penuria di manodopera. Come in molti casi, laddove la cultura e la politica puntano i piedi, è l’economia con le sue leggi stringenti ad aprire varchi altrimenti impensabili. Sono gli imprenditori e non la sinistra più liberale e tollerante a predicare l’apertura verso i lavoratori di altri Paesi, leggi migranti. Per il momento la politica è disponibile ad aprirsi verso i cittadini dei Paesi limitrofi, quelli che parlano lingue affini e che sono considerati più facilmente integrabili o magari assimilabili. Poco importa che siano di etnia diversa o magari che si tratti di cittadini di Paesi con i quali i rapporti negli ultimi decenni sono stati tutt’altro che sereni. Semplicemente si fa di necessità virtù. Tanto più che del bacino tradizionale d’immigrazione, quello dei croati di Bosnia, si è ormai raschiato il fondo o quasi. E per giunta alla Croazia non conviene di certo dall’ottica storica e politica svuotare la Bosnia ed Erzegovina della sua componente croata.

Fare di necessità virtù

Il problema è che una volta che si schiude la porta quella rischia di spalancarsi all’improvviso. Anche là dove sembra che le chiusure siano maggiori, sono le esigenze e le situazioni della vita a dettare la necessità di aprirsi alle diversità. Così molti giovanotti dell’entroterra dalmata hanno trovato moglie in altri continenti, convolando a nozze con giovani africane. E i bimbi che nascono e nasceranno chiaramente saranno d’aspetto diverso rispetto a quello tradizionale in quei lidi…
Inutile negarlo: siamo tutti figli di migrazioni, che siano recenti o antiche. Andando indietro nelle generazioni tutti si sono spostati da qualche parte.
In fin dei conti uno dei fattori che ha consentito all’umanità di diffondersi su tutto il pianeta e di sopravvivere per così lungo tempo è l’attitudine delle popolazioni a spostarsi sul territorio. Tali movimenti hanno contribuito all’evoluzione numerica della popolazione, mentre l’intensità e la composizione dei flussi migratori ha influito sulla dinamica demografica nei Paesi di origine e di destinazione. La mobilità è fisiologica perché funzionale all’equilibrio sociale: ci si sposta per motivi economici, affettivi, culturali, politici e di preferenza ambientale; sulle migrazioni influiscono la collocazione geografica, le vicende storiche, le aree linguistiche e la fase congiunturale.

Un fenomeno globale

La migrazione internazionale oggigiorno è un fenomeno globale che sta crescendo in dimensione, complessità e impatto sui Paesi, sui migranti, sulle loro famiglie e sulle comunità; è simultaneamente causa ed effetto di processi di sviluppo più ampi, ed è ormai una priorità per la comunità internazionale. La migrazione può essere una forza positiva per lo sviluppo, ma la percezione attuale è di un fenomeno vissuto come eccezionale, con le caratteristiche proprie dell’esodo, dell’invasione, determinato dalla sproporzione demografica esistente tra il Sud e il Nord del mondo.
In un mondo segnato dalla diseguale distribuzione della ricchezza, le migrazioni sono un fenomeno inevitabile per cui il numero dei migranti è destinato ad aumentare ancora per il permanere di squilibri quantitativi, qualitativi e territoriali nel mercato del lavoro e nelle forze di lavoro dei Paesi del Nord del mondo. Inoltre è impossibile pensare che l’ulteriore attesa crescita delle popolazioni in età lavorativa potrà essere compensata dalla creazione di nuovi posti di lavoro nei paesi del Sud del mondo, quanti ne sarebbero richiesti. La crisi economica, ancora in corso, ha provocato una perdita considerevole di posti di lavoro nelle economie avanzate, anche in conseguenza della delocalizzazione all’estero delle attività produttive, in parte compensata dall’assunzione di stranieri in settori e mansioni non ambiti.

Ostilità e xenofobia

Però tutto ciò ha i suoi vantaggi e gli inevitabili svantaggi, ovvero problemi. Come il mercato del lavoro può ricevere sostegni positivi da un’immigrazione meglio regolamentata, così, il confronto con persone portatrici di altre sensibilità culturali e religiose può essere stimolante. Invece gli immigrati spesso sentono di non essere inquadrati in maniera amichevole, di essere necessari, ma mal sopportati. Senz’altro i nuovi venuti sono chiamati a recepire senza riserve le regole fondamentali della società che li accoglie e ad accettarne i principi costituzionali. Però, anche da parte della popolazione locale, è necessario accettare gli immigrati nella loro diversità. In questo processo, purtroppo, la differenza religiosa è diventata un fattore di complicazione, specialmente con riferimento al rapporto tra l’Islam e l’Occidente. D’altra parte, con l’aumento del fenomeno migratorio si sono intensificati nelle popolazioni autoctone gli atteggiamenti xenofobi e ostili verso gli immigrati, acuiti dall’aumento della disoccupazione. Gli episodi di vera e propria violenza sono responsabilità soltanto di una parte piccolissima dei cittadini, ma sentimenti di diffidenza, preconcetti sulle culture diverse e una generica paura dello straniero interessano una popolazione più vasta, oltre ad essere amplificati dai mezzi di comunicazione e dai programmi politici di alcuni partiti europei. Fenomeni questi ultimi d’altronde scontati.

Una crisi permanente

Certamente l’Europa paga i risultati nefasti delle guerre in Libia e Siria in concomitanza con le cosiddette primavere arabe e con l’incedere della crisi del 2007-2008 (e i suoi enormi effetti anche sui Paesi africani e medio orientali) i cui esiti finiscono con il lambire duramente tutto il sud del Vecchio continente; è da allora che i flussi immigratori si trasformano in veri e propri esodi “incontrollabili”. La grande differenza rispetto alle fasi storiche precedenti è che i nuovi flussi avvengono all’interno di una dimensione di crisi permanente e di ristagno economico che si avvolge su sé stesso e per il quale non si intravvedono vie di uscita, diversamente da quando l’intero occidente era percorso dai miracoli economici nazionali che sembravano consentirne una crescita infinita. Che essi si producono soltanto in minima parte attraverso accordi bilaterali tra Paesi, ma nella cornice indefinita della globalizzazione, che si diffondono in contesti di mercati del lavoro nazionali sempre più precarizzati a partire dalle popolazioni autoctone.

Ideologie dominanti

Il mondo dei mass media e la politica – quest’ultima ostaggio permanente delle campagne elettorali – ovviamente tendono a semplificare al massimo il fenomeno migratorio e a dare risposte scontate nel segno della dicotomia fra destra e sinistra. Si sprecano così le coppie interpretative buonismo vs cattivismo, società aperta vs società chiusa ed altre mediocri amenità che si legittimano vicendevolmente, che ci hanno portato agli esiti attuali e in cui continuiamo improvvidamente a sostare. Eppure si tratta di concetti che dovrebbero essere espunti dal vocabolario dell’analisi e dell’indagine. Le dinamiche con cui abbiamo a che fare non sono neanche più complesse, sono piuttosto semplici, evidenti, farebbero parte del senso comune, se esso non fosse stato così proditoriamente inquinato dalle ideologie dominanti e dagli interessi elettorali. Questo non significa ancora che la politica non debba fare la sua parte, anzi, perché, come sostengono alcuni, le migrazioni moderne sono anche il risultato di sconfitte sociali e politiche, ed è proprio da lì che si dovrebbe riprendere a districare la matassa.

Capacità di adattamento

Decisiva, per quanto concerne il futuro delle società d’immigrazione – e si presume che tale sarà anche la nostra – sarà la “capacità adattativa” insita nelle migrazioni dell’epoca contemporanea. Dalla fine dell’Ottocento la maggior parte dell’emigrazione europea, interna e internazionale, cominciò a dirigersi verso società industriali-urbane, nelle quali le alte capacità riproduttive non erano affatto un vantaggio in termini di “capacità adattativa”, come era accaduto fino ad allora. Il caso dell’emigrazione dai Paesi della sponda settentrionale del Mediterraneo nel Nord America è esemplare. Le donne di queste aree censite negli Stati Uniti all’inizio del Novecento, originarie in gran parte dalle campagne, avevano indubbiamente caratteristiche diverse dalle (bianche) nate in America. Si sposavano più giovani, poche rimanevano nubili, avevano più figli. I loro comportamenti riproduttivi potevano essere dovuti in parte a fattori di selezione legati alle migrazioni; in ogni caso esse si differenziavano non solo dalla popolazione di arrivo ma anche da quelle di partenza, le campagne meridionali. Tuttavia quella situazione di “vantaggio riproduttivo” era di poca utilità nella nuova società urbana e industriale nella quale gli immigrati si trovavano a vivere. E poiché una caratteristica dei migranti è l’alto grado di adattamento, i comportamenti riproduttivi cambiarono con grande rapidità. Ancora nel 1920, il numero medio di figli, ad esempio, delle immigrate italiane nate in Italia era esattamente il doppio di quello delle americane (bianche) nate negli Stati Uniti: 6,3 contro 3,15. Ma in pochissimo tempo la forbice si richiuse e già nel 1936 il numero di figli delle italiane in America era sceso sotto quello delle americane: 2,08 contro 2,14. Questo esempio di folgorante mutamento-adattamento è uno dei tanti che si possono trarre dalla storia migratoria in epoca contemporanea.

Deficit di nascite

E nell’attualità? Come si riproducono nei Paesi di immigrazione gli stranieri, particolarmente quelli che provengono da regioni ad alta o altissima natalità? Si rischia, a lungo andare, un effetto di “spiazzamento” della popolazione autoctona per la crescita incontrollabile della popolazione di origine straniera? Oppure, la stessa domanda può essere declinata con implicazione opposta: possono gli immigrati, per la loro maggiore propensione ad avere figli, attenuare o annullare il deficit di nascite di tanti Paesi ricchi?
La risposta a questi quesiti è complessa, ma – almeno secondo gli esperti – non impossibile. Va stabilita una distinzione tra gli immigrati di prima generazione e quelli delle successive. Nella prima generazione, l’attuale esperienza europea dice che essi tendono ad avere un numero di figli moderatamente superiore a quello medio del Paese in cui arrivano, ma inferiore a quello di provenienza, perché le migrazioni tendono, di per sé, a selezionare persone più “adatte” all’inserimento nelle società di destinazione. In Francia (1991-1998) il numero medio di figli per le donne immigrate dal Maghreb fu di 2,8 (contro 3,3 nei Paesi d’origine), per quelle provenienti dal resto dell’Africa 2,9 (contro 5,9), per quelle dall’Asia 1,8 (contro 2,9). In Lombardia, le elaborazioni sulle nascite del 2008 assegnano un numero medio di figli per donna di 2,1 alle immigrate non europee: certo assai più alto dell’1,3 delle italiane ma, per lo scarso peso delle prime rispetto alle seconde, scarsamente influente sul livello generale di riproduttività.

Comportamenti riproduttivi

Per le generazioni successive alla prima, l’esperienza statunitense e di altri Paesi d’oltreoceano d’immigrazione, dall’Europa o da altri continenti, dice che esse avevano comportamenti riproduttivi praticamente indistinguibili dagli autoctoni e che le divergenze erano state praticamente annullate. La conclusione che sembra imporsi, è che nel mondo contemporaneo il vantaggio riproduttivo delle generazioni successive alla prima è vicino allo zero e, alla lunga, la popolazione di origine immigrata tende a crescere alla stessa velocità di quella di origine autoctona. Naturalmente questa è una conclusione che si richiama alle esperienze iniziali del fenomeno migratorio, alla convinzione che comunque i migranti alla lunga sono destinati a integrarsi e assimilarsi, senza divenire un fattore etnico e politico organizzato. Come dire, niente fenomeni di balcanizzazione della società. Ma nulla assicura che simili fenomeni non abbiano con il tempo a verificarsi anche nei Paesi dell’Europa occidentale, per cui giocoforza si dovrebbe cercare di trarre insegnamento dalle esperienze altrui, per quanto lontane e diverse possano sembrare.

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