Alberto Fiorin: «Il mondo e le persone sono spesso migliori di quanto si pensi»

Terminata la spedizione «Marco Polo a pedali», il ciclista veneziano racconta in un'intervista l'avventura durata 103 giorni rimarcando il fatto di aver vissuto una bella esperienza, soprattutto dal punto di vista umano

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Alberto Fiorin: «Il mondo e le persone sono spesso migliori di quanto si pensi»
Ai piedi della Grande Muraglia. Foto: GENTILMENTE CONCESSA DA ALBERTO FIORIN/MARCO POLO A PEDALI FB

Ricordate la storia dei due ciclisti veneziani Alberto Fiorin e Dino Facchinetti i quali lo scorso 25 aprile erano partiti da Venezia per raggiungere Pechino viaggiando sulle due ruote lungo la Via della Seta? Ebbene, la sfida sportiva e culturale “Marco Polo a pedali”, promossa dall’associazione Ponti di Pace e dalla Società Ciclistica Pedale Veneziano 1913, che rientra tra le celebrazioni del settimo centenario dalla morte di Marco Polo, è giunta al termine. I due amici di avventure, Alberto Fiorin, giornalista, scrittore e cicloviaggiatore e Dino Facchinetti, sono rientrati da poco a Venezia. Come eravamo rimasti d’accordo alla vigilia della loro partenza da Venezia, appena terminato il viaggio, Alberto Fiorin ci avrebbe raccontato le loro esperienze vissute nei 13 Paesi attraversati. L’avventura durata 103 giorni e i 10.500 chilometri percorsi hanno portato loro un bagaglio di incontri inesauribile.

La spedizione sulle orme di Marco Polo ha voluto rendere omaggio a questo grande scrittore, ambasciatore e mercante italiano, a dimostrazione di quanto sia stata importante e universale la sua figura di viaggiatore che è stato un ponte di cultura tra mondi e popoli differenti. Sembra incredibile eppure le ragioni che hanno spinto i componenti della spedizione “Marco Polo a pedali” a raggiungere in bicicletta Pechino non sono dissimili da quelle che spinsero Marco Polo ad affrontare il lungo viaggio in Catai, l’antico nome della Cina ossia il desiderio di conoscere altri mondi, altre genti, altre culture e il proposito di stabilire un dialogo proficuo con essi.
Come ci spiega Alberto Fiorin, in compagnia di Facchinetti ha pedalato verso la Cina in un’avventura ogni giorno più sorprendente e variopinta, attraversando 13 Nazioni, per una media di circa 125 chilometri al giorno. L’obiettivo della spedizione era di portare un messaggio di solidarietà. “Questo messaggio oggi ha un valore inestimabile grazie alla lezione che riportiamo a casa, ovvero che il mondo è migliore di quanto si creda, al di fuori di ogni facile retorica”.

Il vostro arrivo a Pechino era previsto per il 5 agosto.
“Siamo giunti a Pechino puntualissimi come se fossimo dei ciclisti svizzeri e non dei ciclisti italiani. Siamo rientrati in Italia (in aereo) il 6 agosto scorso. E ora riposiamo”.

Beh, è un riposo meritatissimo!
“Sì, perché alla fine, se devo essere sincero, eravamo un po’ stanchi”.

La voglia di aiutare
Il viaggio è stato sicuramente un’esperienza che influenzerà il vostro modo di vedere il mondo. Quali ricordi conservate di questi cento e passa giorni trascorsi in sella alle due ruote?
“Forse è un po’ presto per dirlo perché siamo rientrati veramente da poco, però se chiudo gli occhi vedo un caleidoscopio di immagini. I flash che mi vengono più vivi alla mente sono i volti delle migliaia di persone che ci hanno aiutato durante questo viaggio, perché è stato un viaggio anche difficile. Ci sono state delle difficoltà legate alle temperature, al vento contro, un po’ di salite che abbiamo superato, ma abbiamo soprattutto trovato tantissime persone che ci hanno aiutato, che ci hanno offerto dell’acqua se avevamo sete, meloni, angurie per dissetarci, per avere un po’ di energia in più. Queste situazioni le abbiamo vissute soprattutto in Cina. Una curiosità e un fatto a volte anche imbarazzante è che tutti volevano farsi i selfie con noi. Abbiamo trovato tantissima complicità. Abbiamo visto molti monumenti, panorami meravigliosi ma una cosa che in questo momento mi viene in mente sono le persone, dei perfetti sconosciuti ovviamente, con cui non riuscivamo neanche a parlare la stessa lingua, perché in tutte le nazioni che abbiamo attraversato, soprattutto la Cina, ma anche nella gran parte delle nazioni dell’Asia centrale, come l’Uzbekistan, il Kazakistan, il Kirghizistan, pochissimi parlano l’inglese. Abbiamo sempre dovuto arrangiarci, ma il comune denominatore è stata proprio questa curiosità e questa voglia di esserci d’aiuto. Del resto, quando si viaggia in bicicletta, con queste modalità, è evidente che sei una persona che può avere bisogno di aiuto, di riparo se piove, di riparo se c’è sole, di idratarsi quando attraversi il deserto. Abbiamo sempre trovato persone che hanno soddisfatto queste nostre esigenze, senza chiedere nulla in cambio, spesso offrendoci del cibo, gli spaghetti cinesi, nei ristoranti. È stata veramente una bella esperienza, soprattutto dal punto di vista umano”.

C’è qualche situazione poco piacevole che avete vissuto durante questi tre mesi e mezzo che siete stati in viaggio?
“No. Se devo essere sincero, non abbiamo vissuto episodi spiacevoli. Abbiamo attraversato delle frontiere anche complicate, difficili. Forse l’episodio più curioso è stato questo: la frontiera tra l’Azerbaigian e la Giorgia è chiusa dal 2020, ufficialmente per il Covid, ma quasi sicuramente per questa guerra con l’Armenia. Il confine per i viaggiatori è chiuso e noi invece siamo riusciti a passare perché abbiamo avuto il permesso speciale del Ministero degli Interni Azero, previa sollecitazione del Ministero degli Affari Esteri italiano. Anche lì è stato veramente incredibile vedere gli sguardi di queste persone, di questi abitanti dei villaggi, che non vedevano da quattro anni dei turisti singoli arrivare da quelle parti e noi ci siamo sentiti un po’ dei marziani in questo Paese, insomma, perché è stata sicuramente una situazione particolare. Non abbiamo mai avuto sensazioni di pericolo, di paura. Diciamo che abbiamo scelto un percorso fattibile perché abbiamo dovuto fare un po’ di slalom tra le guerre, siamo passati relativamente a pochi chilometri dal confine con la Russia, con l’Ucraina, lungo il Mar Nero. Siamo stati a 20 chilometri dal confine con l’Iran. Ci ha colpito vedere chilometri e chilometri di code di camion alle frontiere, ai confini del Caucaso. Abbiamo visto serpentoni di 10-20 chilometri di camionisti. Noi li passavamo tutti”.

Quali sono stati i Paesi e i tragitti più impegnativi?
“Sicuramente il Turkmenistan è stato molto impegnativo perché è uno stato in gran parte attraversato dal deserto. Tra l’altro abbiamo dovuto attraversare il Mar Caspio in traghetto che ci ha portato appunto da Azerbaigian al Turkmenistan. Il traghetto è a 30-40 metri sotto il livello del mare, per cui essere su un deserto a 43º C non è stato facilissimo, soprattutto per l’idratazione. Lì abbiamo trovato in quei giorni parecchio vento contrario, ci faceva procedere molto lentamente, con il caldo, i dromedari erano gli unici nostri compagni di strada. È stato un po’ complicato, però alla fine siamo riusciti a superare anche quello.
Il caldo è stato un nemico con cui abbiamo dovuto fare i patti perché alla fine abbiamo anche pedalato la notte proprio per evitare l’eccessiva calura”.

Quell’anguria onnipresente
Avete sentito la mancanza di qualche cosa in questi 100 giorni trascorsi in strada?
“Quando si viaggia si è sempre un po’ aperti anche come testa, si vuole conoscere le culture, le cose. Quindi eravamo anche ben disposti per il cibo, abbiamo mangiato quello che si trovava. L’alimentazione che abbiamo tenuto per noi per 100 giorni non è quella di un classico ciclista, di un professionista che fa 150 km al giorno, che dopo mangia tutto il cibo giusto, i carboidrati per reintegrare, quindi quando viaggi devi abituarti al cibo che trovi. Abbiamo mangiato tanta carne, di montone, di agnello, che in effetti non sarebbe il cibo ideale per uno che fa tanta fatica. Abbiamo dovuto ovviamente adattarci, abbiamo mangiato anche molto bene in Cina. Per esempio ci siamo trovati benissimo come dieta, abbiamo ripreso a mangiare i carboidrati, riso, spaghetti, verdure e tanta frutta. La costante di questo viaggio, se devo individuare un cibo che ha unificato tutte queste nazioni, è stata l’anguria. In due compravamo anche anguria da 10-12 kg e il pian pianino la mangiavamo perché ci idratava, ci dissetava e ci dava anche un po’ di sali e di zuccheri. L’abbiamo trovata ovunque, in Cina, in Turkmenistan, in Pakistan, in Turchia. Non dico sia stata la nostra salvezza, però ha spesso risolto i problemi”.

L’anguria è stata dunque la vostra compagna di viaggio. Riflettendo su quanto vissuto nei mesi scorsi, in qualche modo ora vi sentite più vicini a Marco Polo?
“Abbiamo scoperto che Marco Polo è molto conosciuto lì, da quelle parti. I Paesi che abbiamo attraversato sanno chi fu Marco Polo. Abbiamo visto delle statue di Marco Polo, cosa che è impossibile appunto vedere a Venezia, in Italia, nel suo paese natale. Invece a Pechino ci sono. Abbiamo scelto di arrivare proprio al Ponte di Marco Polo, per cui è stata una presenza continua, in qualche modo un po’ già condizionata, ci siamo sentiti abbastanza vicini a questo giovane curioso che ha cercato di vedere e di descrivere i Paesi in maniera neutrale, senza troppi pregiudizi. Quindi anche noi cerchiamo di non avere troppi pregiudizi. Nelle nostre descrizioni, nei social, abbiamo tenuto dei reportage quotidiani, riportavamo quello che succedeva. Avevamo questa speranza di aver preso un po’ da lui una visione abbastanza neutrale, non prevenuta. Ci siamo sentiti degli esploratori perché andare lenti ti consente di scoprire mondi nuovi. Noi abbiamo scelto un mezzo lento, ci abbiamo messo 100 giorni per arrivare a Pechino. Marco Polo è stato per anni in viaggio. Al ritorno abbiamo preso l’aereo; in 14 ore abbiamo percorso il viaggio che per l’andata ci sono voluti 100 giorni. L’aver optato per questo mezzo di viaggio è quello che ci ha consentito di capire un po’ di più questo percorso, queste popolazioni, i paesaggi, perché andando lentamente si percepisce più facilmente l’immagine. Trovare tutto questo aiuto, questa bella risposta nelle persone che fermavano la macchina e si inchiodavano davanti a noi per aiutarci, ci ha dato tanto. L’autista usciva e ci offriva l’anguria fresca, un po’ d’acqua. Tutti questi piccoli gesti potrebbero sembrare insignificanti ma in quel momento per noi avevano veramente il valore di un grande aiuto. Spesso avevamo tanta sete e trovare due bottiglie d’acqua spuntare dal nulla, da un finestrino di una macchina, anche al volo, è una grande cosa. Il mondo e le persone sono spesso migliori di quanto pensiamo. Le persone normali lungo la strada sono gentili, curiose, generose, questo è il messaggio che ci portiamo a casa. Quando ricevi ti senti in qualche modo tenuto a dare, quindi anche noi dobbiamo cercare di comportarci così quando incontriamo persone lungo la strada. Avere il tempo di fermarsi e di offrire un caffè al prossimo sarebbe utile”.

Suppongo vogliate rimanere a casa per un periodo ma siamo curiosi di sapere qual è la prossima destinazione?
“Sinceramente, questo è stato un viaggio lungo perché è durato 103 giorni. Le emozioni e le impressioni sono molto presenti. Adesso non mi viene da pensare a fare dei nuovi viaggi. Mi piace fare delle cose che abbiano un senso, un obiettivo. In questo caso lo scopo era di rendere omaggio a Marco Polo. Se nei prossimi anni ci viene in mente qualche altra idea, cercheremo di portarla avanti. Questo era un sogno nel cassetto, l’abbiamo esaurito e speriamo di continuare a sognare perché è quello che ci tiene un po’ vivi”.

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