
Si è svolto l’altra sera, nel gremito Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc” di Fiume, il quarto appuntamento del Teatro filosofico, ciclo curato dal filosofo Srećko Horvat, che ha visto protagonista Adania Shibli, tra le voci più enigmatiche e necessarie della letteratura contemporanea, autentica coscienza capace di spingersi oltre i confini stessi del linguaggio. Palestinese di origini beduine, autrice pluripremiata e spesso al centro del dibattito, l’autrice è apparsa sul palco con la compostezza di chi lascia parlare l’essenza, una presenza in grado di trasmutare il silenzio in verbo. L’incontro, denso di riflessioni profonde e toccanti, ha dischiuso interrogativi fondamentali sul ruolo del linguaggio, sull’etica della narrazione, sul rapporto tra memoria e silenzio, tra politica e poesia. Eppure, come ha subito chiarito la stessa Shibli con disarmante sincerità, la stessa definizione di “scrittrice” le appare già come una sovrapposizione indebita, un’imposizione esterna su un’esperienza radicalmente intima, sottolineando con parole limpide che “non penso di essere una scrittrice. Sto scrivendo. Non so ancora cosa sarò da grande”.
Scrivere come metamorfosi
Il padrone di casa ha immediatamente raccolto la provocazione di Shibli, quel rifiuto radicale di definirsi “scrittrice”, e ha posto la domanda destinata a tracciare il filo conduttore dell’intero incontro – “Che cos’è, allora, per te la scrittura?”. La risposta è risuonata come una dichiarazione di poetica e, insieme, come un atto di sottrazione – “La scrittura non è un ruolo da assumere, ma un processo che si attraversa. Non è un’etichetta, ma una trasformazione ininterrotta. Non uno strumento da impugnare, ma una presenza viva da accogliere. Scrivere mi attraversa, mi trasforma”. La scrittura, per Shibli, elude ogni tentativo di addomesticamento, sfugge alla riduzione a mera tecnica, configurandosi come una condizione dell’essere, una forma di ascolto amoroso verso il linguaggio, che mai si lascia piegare completamente alla volontà dell’autore. In questo orizzonte, Horvat ha evocato una frase emblematica dell’autrice – “A volte mi sveglio e mi chiedo: è una poesia o un pensiero? Chi decide?”. Proprio in quell’indecidibilità si annida l’essenza della sua scrittura.
L’autrice ha condiviso un aneddoto familiare, tenero e paradossale. “Un giorno mio figlio mi ha detto che odiava nuotare. Alla mia domanda su cosa volesse fare, ha risposto ‘Nuotare!’ Così mi sento io con la scrittura, che amo e detesto, ma di cui non posso fare a meno”. Ogni parola, ogni virgola, ogni pausa si carica di senso. Persino il silenzio tra due frasi acquista un peso specifico. “Una virgola può decidere il senso di una sentenza, anche nell’ambito di una Corte Internazionale di Giustizia”, ha osservato, aggiungendo che “è successo davvero. Quella virgola mi ha ossessionata per settimane”. Un piccolo segno grafico capace di racchiudere il peso di una verità.
Il potere etico del silenzio
Il dialogo si è inoltrato nel nucleo più intimo del pensiero di Adania Shibli: il silenzio. Il filosofo ha sottolineato come le sue opere, in particolare “Minor Detail” (Un dettaglio minore, 2017), si fondino su un equilibrio sottile tra ciò che viene detto e ciò che resta taciuto, dove la forma stessa si fa eco di un vuoto, di una frattura, di una negazione, dove ciò che è escluso dalla narrazione ufficiale ritorna come presenza spettrale. È il non detto a risuonare, è l’assenza a farsi voce. Alla domanda “Qual è il ruolo del silenzio nella tua scrittura?” Shibli ha risposto tracciando un’immagine potente, delineando lo stesso non come assenza, ma come una diversa forma di presenza, una memoria che sopravvive alla cancellazione, come accade per le mappe senza il nome “Palestina” o per le strade dove le insegne raccontano solo una versione possibile del mondo. La letteratura, secondo lei, è l’unico spazio capace di accogliere queste voci rifiutate e negate.
“Sono cresciuta in una casa dove il silenzio era quasi venerato” – ha confidato, precisando come inizialmente lo avesse detestato, per poi riconoscere in esso un luogo di possibilità. Dove il linguaggio si infrange, nasce qualcos’altro. In Palestina, spesso la sofferenza non trova parole per essere espressa. I suoi genitori, sopravvissuti alla Nakba, non raccontavano la loro storia, ma compivano gesti silenziosi: raccoglievano frutti nei villaggi distrutti, si prendevano cura di alberi sradicati. Azioni minime e mute, cariche di memoria e resistenza. Non si tratta, dunque, soltanto di una questione tematica, ma anche formale: come ha osservato Horvat, la lingua di Shibli è essenziale, antinarrativa, e costringe il lettore a colmare i vuoti, a inoltrarsi nell’ombra. “Non mi fido delle narrazioni lineari – ha ammesso l’autrice, aggiungendo – mi interessa ciò che resta ai margini, il dolore che non può essere detto, le parole che mancano”. In questa tensione tra visibile e invisibile, tra parola e silenzio, si radica la forza etica della sua scrittura.
Scrivere della Palestina
Riprendendo il filo delle sue riflessioni, Horvat ha colto come l’opera di Shibli non si ponga “sulla” Palestina, ma germini “della” Palestina, ne sia linfa e radice. Un’osservazione che l’autrice ha accolto con gratitudine, svelando che scrivere della Palestina non è esercizio di distanza, ma atto di radicamento, di immersione in una prospettiva che sfida la narrazione dominante. La sua parola non si presta a illustrare, non si piega a didascalie o a complicità con la violenza simbolica dello Stato-nazione, facendosi invece testimonianza franta, eco di ciò che resta ai margini, baluginio di frammenti che la cronaca non sa raccogliere.
“La letteratura è uno spazio etico”, ha affermato, e la sua scrittura si sottrae alla funzione di specchio, preferendo essere fenditura, varco, soglia. In arabo, ha ricordato, “etica” e “letteratura” si fondono in un unico lemma, come se la responsabilità e la bellezza scaturissero dalla medesima sorgente. Non è dunque un caso se la sua opera lascia al lettore ampi spazi d’ombra in cui perdersi e ritrovarsi. Sollecitata da una spettatrice sul perché di questa scelta, Shibli ha confidato che “il tormento più grande dimora in ciò che non si può dire. Talvolta, nel pronunciare, si rischia di rendere reale l’indicibile. Preferisco lasciare che il non detto resti sospeso, incompiuto. L’immaginazione, più della cronaca, sa vedere l’invisibile”. Così, la scrittura di Shibli si fa terra di confine, luogo in cui l’assenza diventa presenza, e il lettore, chiamato a colmare i vuoti, diviene a sua volta testimone e custode di una memoria che resiste alla cancellazione.
Insegnare tra le torri
L’esperienza di Adania Shibli come docente all’Università di Birzeit, in Palestina, si rivela altrettanto illuminante quanto la sua scrittura. Lì, tra giovani costretti a confrontarsi quotidianamente con l’ostilità dei checkpoint e la precarietà dell’esistenza, ha trovato una sete di pensiero capace di rendere la filosofia linfa vitale, urgenza, pratica di sopravvivenza e di pensiero. I testi di Foucault non si esauriscono in aula, ma si sperimentano nei paesaggi disseminati di torri di controllo, nella carne viva della realtà palestinese. In un’occasione emblematica, uno studente – ex detenuto, segnato da anni di prigionia – ha condotto l’intera classe davanti a una torre di sorveglianza israeliana, trasformando quel luogo di oppressione in una lezione a cielo aperto, dove discutere il concetto stesso di controllo e potere. Un gesto audace, poetico, performativo. Carico di rischio e di significato, ha trasformato la filosofia in corpo, la teoria in esperienza vissuta.
“La scuola è l’unico spazio che pare offrire un temporaneo riparo dalla brutalità quotidiana. È un’illusione, certo, ma un’illusione necessaria”, ha osservato Shibli. Anche l’insegnamento, come la scrittura, si trasfigura in atto d’amore e di cura, ma senza mai scadere nell’attivismo didascalico o nella retorica. “La scrittura deve restare libera. Non si può strumentalizzare l’amore”, ha ancora affermato, rivendicando per la parola e per il pensiero lo stesso spazio di gratuità e di resistenza che la sua opera testimonia.
Echi di teatro e di mare
Il teatro, con la sua dimensione corporea e collettiva, ha rappresentato per Shibli un laboratorio di sperimentazione ulteriore, un luogo dove la parola si fa corpo e presenza condivisa. Scrivendo in arabo classico, non parlato, l’autrice ha avvertito l’ostacolo di costruire dialoghi che risuonassero autentici. Da qui la scelta di affidarsi all’inglese, lingua viva e pulsante, capace di restituire il ritmo della voce, il calore del respiro. Il teatro, per lei, è innanzitutto un atto di comunione, dove si respira insieme, si abbatte la distanza tra palco e platea, si celebra il linguaggio come incontro. Se la scrittura può essere un gesto solitario, il teatro è la festa del linguaggio che si fa relazione.
Nel finale, Horvat ha evocato il mare, quella nostalgia salmastra che attraversa l’opera di Shibli come una melodia remota, la più poetica delle sue ossessioni. Il Mediterraneo, per lei, è geografia dell’anima, un luogo di appartenenza e di perdita, di unione e separazione. L’olivo, il mandorlo, i muri a secco: ogni elemento naturale le parla di una continuità intima tra le sponde, tra Palestina e Puglia, più intensa persino di quella che unisce il Sud e il Nord d’Italia. Eppure, il mare resta soglia inaccessibile, desiderio e privazione insieme. “Molti palestinesi non hanno mai visto il mare. Quando finalmente fu possibile, alcuni si tuffarono. E annegarono. Non sapevano nuotare”, ha raccontato. Un amore che può ferire, uccidere, ma anche una forma di resistenza – “Anche toccare la sabbia diventa un gesto politico. A Ramallah si cerca il mare nell’eco di un tramonto, nella luce che danza sui vetri. Ci è stato sottratto, ma continua a vivere dentro di noi. Il Mediterraneo ci unisce più di quanto ci separi”, ha concluso Shibli, ricordando come la natura continui a sussurrare la possibilità di una continuità che resiste al tempo e alla storia.
L’incontro si è chiuso tra domande e riflessioni del pubblico. Interrogata sulla possibilità di coesistenza tra israeliani e palestinesi, l’autrice ha risposto con limpida fermezza che “immaginare è già una forma di resistenza. Io continuo a immaginare una Palestina libera per tutti. Non è una conversazione tra la spada e il collo, ma un desiderio etico. E se lo neghiamo, perdiamo la nostra umanità”.

Foto: GORAN ŽIKOVIĆ
Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.
L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.