
L’Art cinema di Fiume ha ospitato l’altra sera, dinanzi a una platea gremita, la presentazione del nuovo volume del fotografo, avventuriero e scrittore di viaggi, Davor Rostuhar intitolato “Lovci sakupljači” (Cacciatori collezionisti). Nono capolavoro cartaceo di un artista che si spinge ogni volta all’estremo dell’immaginabile o, perlomeno, dei propri limiti o di quelli di un qualsiasi altro scrittore, in Croazia. Uomo di mondo curioso capace di essere sempre all’avanguardia per stili, idee e accessori. Persona acculturata che osserva, riflette e riesce a trarre conclusioni interessanti in grado d’incantare chi lo legge o chi lo ascolta, come noi ieri.
Un continuo mutare
Durante gli anni accademici scelse di studiare storia e sociologia (abbandonandoli poi per dedicarsi a fare della fotografia e della scrittura in un contesto di viaggio, il proprio pane quotidiano). In ciò che dice emerge tutto l’interesse per i posti e le culture con le quali entra in contatto. Si può intendere il pallino sociologico, perché è capace di spiegare quello che osserva considerando ogni fenomeno come il risultato di varie influenze e fattori esterni. Niente è definitivo, ma è tutto un continuo mutare. E lui è capace di cogliere. E anche questa volta, dopo il progetto fotografico della “Croazia dall’alto” (quando ancora i droni non erano giocattoli accessibili a chiunque), la camminata sugli sci dall’Antartide al Polo Sud, le interviste in giro per il pianeta alla ricerca delle più svariate versioni dell’amore, tutte cose che sembrano possibili solo perché lui è sempre stato capace di andare oltre i limiti del possibile, è riuscito nel proprio intento. Ha realizzato un documentario donandogli, però, una nota di unicità filmandolo in tecnologia VR e facendolo così diventare il primo film in VR nella storia della cinematografia croata.
La realtà virtuale
“Durante il progetto ‘La Croazia dall’alto’ sono venuto per la prima volta a contatto con il VR (virtual reality). Negli anni ne ho seguito l’evoluzione facendo viaggi a Milano e Amsterdam. All’inizio c’era il trend di filmare in VR quasi esclusivamente posizionando la telecamera su oggetti o superfici in movimento. Il risultato era che, chi guardava, provava nausea. Negli ultimi anni, però, la cosa è cambiata e i registi VR più affermati, ora insegnano che è molto meglio filmare a 360 gradi, da una posizione statica. La telecamera e tutta l’apparecchiatura, con la quale ho filmato durante le mie 3 settimane in Tanzania, procurata peraltro poco prima di partire, l’ho chiamata Marvin e ho sempre bisogno di prendermi del tempo per posizionarla bella fissa tenendo in considerazione di scegliere bene la scena”, ha spiegato.
Ma il problema era che Rostuhar seguiva i membri della tribù Hadza, una delle poche rimaste a scegliere uno stile di vita dedicato alla caccia e alla raccolta di frutti, erbe e bacche per cibarsi. “Una volta avvistata la preda, loro si disconnettevano dalla realtà e, come ipnotizzati, partivano all’assalto! Io in quel momento dovevo essere svelto a non perderli. Ma era un continuo corrergli dietro! Quando hai fame non aspetti nessuno”, ha ricordato suscitando le risate dei presenti.
Ma alla fine il risultato sembra essere soddisfacente. Altrimenti non sarebbe riuscito a realizzare un documentario di ben 30 minuti.
Un documentario di 18 minuti
Quindi Rostuhar non è venuto solo a presentare il libro ma si è portato dietro un documentario in VR e un intero cinema itinerante, piazzato sul Corso a sorprendere i passanti. È proprio questo lo stile che lo contraddistingue. È proprio questo quel qualcosa in più rispetto agli altri.
Tornando alla presentazione: per spiegare meglio la situazione che lo ha visto convivere per settimane con i membri di una delle ultime tribù di cacciatori-raccoglitori esistenti al mondo (che vivono ancora oggi come gli esseri umani hanno vissuto per il 99 p.c. del tempo della loro evoluzione, in modo primordiale a strettissimo contatto con la natura) la prima cosa proposta al pubblico è stato un mini-documentario di 18 minuti. In questo modo tutti hanno potuto vedere le scene, sentire i suoni e le canzoni, facendosi un’idea del contesto ascoltando le osservazioni e riflessioni immortalate dalla telecamera. E poi le sue storie, gli aneddoti di quei giorni, l’insegnamento che questo (come d’altronde ogni viaggio che si fa) gli ha conferito.
Una vita in simbiosi con la natura
Gli Hadza sono una tribù consapevole della civiltà “sviluppata” che l’accerchia ma che rifiuta quasi tutti i suoi benefici. È gente che vive nell’eterno presente libera da ogni necessità di possesso. Sembrano non essere in grado di pianificare nemmeno il prossimo pasto, ma non soffrono mai la fame. Dalla natura si prendono lo stretto necessario e spesso vivono in stretta collaborazione con certi gruppi di animali. Vi è l’esempio degli uccellini golosi di miele ma capaci di scovarlo che, timorosi delle api, chiamano gli umani in aiuto. Questi ultimi, causano fumo, respingono le api e si prendono il miele dandone il giusto agli uccellini. Gli Hadza sono una comunità egalitaria: uomini e donne hanno la medesima importanza nella bilancia delle gerarchie, cosa incomprensibile per il modo patriarcale di vedere il mondo che ne è seguito poi nei secoli.
E così, una moltitudine di perle protrattesi per un’intera ora di discorso da parte dell’autore che ha divertito e incuriosito il pubblico presente. Alla fine una decina di domande e chiusura in grande stile culminata con un applauso che non poteva assolutamente mancare. Davor, chapeau!
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