Il temperamento bonario e gioviale dei fiumani

Nel libro «Folklore fiumano», Riccardo Gigante si sofferma sulle caratteristiche caratteriali, lavorative, tradizionali, sociali dei fiumani «patochi» tra Ottocento e Novecento

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Il temperamento bonario e gioviale dei fiumani

Sfogliando le pagine del gustosissimo libro “Folklore fiumano“ di Riccardo Gigante, ad un certo punto, l’autore si sofferma sulle caratteristiche caratteriali, lavorative, tradizionali, sociali dei fiumani “patochi“ tra Ottocento e Novecento e inizia con la componente, o meglio, componenti etniche della popolazione della città di San Vito.
Scrive Gigante che solo dopo la costruzione delle linee ferroviarie si accentuò l’immigrazione ungherese. Nel passato la popolazione veniva “rinsanguata” dagli affini istriani, da italiani dell’altra sponda, veneti, romagnoli, marchigiani, abruzzesi e pugliesi, da dalmati e croati litoranei, che venivano assimilati assumendo il dialetto e le usanze locali.
«Morbin fiuman»
Il temperamento del popolo fiumano del tempo era bonario, gioviale, e pur essendo lavoratore assiduo non trascurava alcuna occasione per far festa. Era (ed è) portato ai piaceri della tavola, amava il buon vino, e fino a tempi recentissimi – rispetto all’epoca del Gigante – trovava soddisfazione in svaghi assai modesti: scampagnate, bocce, pesca e teatro lirico.
“Sempre alegri e mai passìon” era il motto dei fiumani, che odiavano la malinconia e cercavano il lato buono anche delle avversità. Era ben raro che un fiumano dicesse “Peio de cussi no la poderia andar”; di solito, se proprio doveva riconoscere il lato nero della vita, esclamava: “Pazienza, poderia esser anche pejo”. Amava freneticamente la musica e in particolare gli spettacoli lirici dei quali era frequentatore esigentissimo e critico.
L’orgoglio di essere «fiuman»
Il fiumano era attaccatissimo alla città natale che per tanti secoli di libera vita comunale gli fu patria e quando diceva “Son fiuman” lo affermava con tanta superbia che forse non l’ebbero neanche i “cives romani”; evidentemente sentivano ancora la superiorità che lo statuto civico riconosceva loro rispetto agli altri abitanti, i “foresti”, a quelli che avevano la cittadinanza fiumana. Ci pare di sentire ancora le parole del compianto Giacinto Mario Laszy (Ritter von Nyarazsnyad), la cui madre era stata dama di compagnia della principessa Stephanie, consorte del principe ereditario Rodolfo d’Austria: “I fiumani era orgogliosi de esser fiumani, e i gaveva motivo; per via del grande svilupo e importanza dela cità”. Il secolare isolamento in cui vissero i fiumani e una costante vigile difesa dalle continue insidie esterne avevano trasformato la città in una unica famiglia nella quale le differenze di ceto sociale contavano poco o nulla.
Una città di popolo
Il patriziato stesso viveva dei commerci e della navigazione e, pur considerandosi come nobili superiori agli altri, le sue prerogative erano ben poche, perciò Fiume era una città di popolo e, fino alla guerra che provocò il crollo dell’Impero austriaco, si vedevano nei giorni festivi — affratellati dal comune amore per la buona cucina, il boccale e le bocce — cittadini di tutti i ceti avviarsi nelle osterie della regione in comitive composte dagli elementi più svariati: medici e pescivendoli, professori e calzolai, funaioli e lavoratori del porto,non escluso qualche sacerdote.
L’intera cittadinanza era fedelissima alle antiche tradizioni e usanze locali cui la Grande guerra diede un formidabile colpo, tanto che la successiva generazione le ignorava e, quelle poche che le sono note, non le osservava.
Benessere diffuso

Il silurificio impiegava tanti operai

A proposito delle attività lavorative, il popolo si dedicava alla navigazione, alla pesca, al piccolo commercio, all’artigianato o lavorava nelle industrie. Nel ceto borghese si contavano numerosi armatori, capitani di lungo corso, industriali, professionisti e commercianti. Per molti la somma aspirazione era quella di ottenere un posticino anche modesto al municipio, che con una piccola pensione assicurasse loro una certa tranquillità nella vecchiaia. Il benessere era diffuso e anche il popolo viveva in una relativa agiatezza. Non esistevano né grandi fortune, né la povertà assoluta.
Mentalità patriarcale e onestà assoluta
I fiumani avevano un concetto patriarcale della vita e della famiglia. Tutte le loro azioni erano basate sull’onestà e la rettitudine più scrupolose. La giustizia non aveva da fare con loro che per piccole risse e litigi. Se la cronaca registrava furti, truffe o delitti, questi si dovevano ascrivere a forestieri. L’Autore rileva: “Tale era il rispetto della proprietà che, ancora a mio ricordo, quando un negoziante andava a ‘far marenda’, al caffè o a casa, non chiudeva la bottega ma poneva la scopa di traverso alla porta. Ciò significava che egli sarebbe ritornato fra poco e nessuno avrebbe osato varcare la soglia tanto ingenuamente sbarrata. Così facevano perfino i cambiovalute e gli orefici”.
Feste tradizionali
Le feste celebrate erano quasi tutte di carattere religioso e molto sentite. Oltre che alle grandi solennità di Pasqua, Pentecoste e il Natale, le altre ricorrenze festive erano Capodanno, la Purificazione (Candelora), le Ceneri, San Giuseppe, Ascensione, il Corpus Domini, SS. Pietro e Paolo, la Madonna del Carme, l’Assunta, la Natività di Maria Vergine, Ognissanti, l’Immacolata, il giorno di San Vito (15 giugno) e San Nicolò patrono della città. Giornata semifestiva era anche l’ultimo giorno di Carnevale, ma qualche negozio si riapriva dopo il corso delle carrozze. Qualcuno festeggiava anche San Giacomo (25 luglio), San Rocco (16 agosto), Santa Margherita (20 luglio) e San Cosimo (27 settembre), giorni in cui nelle cittadine di Abbazia, Volosca, Buccari e San Cosmo si tenevano le fiere.
Altri non trascuravano l’occasione di far festa anche per le sagre di altri villaggi della Liburnia e del litorale croato. I più attaccati alle tradizioni si prendevano una mezza giornata di libertà per San Martino, giorno della svinatura e, ai tempi del Libero Comune, inizio dall’anno amministrativo e giornata in cui si eleggevano i giudici rettori.
Unica festa civile osservata e d’obbligo era il 20 agosto, dedicata a Santo Stefano re e patrono d’Ungheria. Il genetliaco e l’onomastico dell’imperatore e re e della imperatrice e regina d’Austria erano ignorati dalla popolazione che non esponeva bandiere né faceva luminarie. Gigante puntualizza: “Queste giornate venivano solennizzate soltanto dalla guarnigione con una Messa e concerti in piazza della banda militare, la quale aveva smesso di aprirli con l’inno dell’impero perché veniva fischiato tanto dalla popolazione fiumana quanto dagli ungheresi. Non si può negare che l’Austria rispettasse fino a un certo punto i sentimenti della popolazione. Ma non bisogna dimenticare che Fiume apparteneva all’Ungheria, che aveva un proprio inno nazionale”.
Le scampagnate dei fiumani

Nemmeno gli “spuzeti” fiumani disdegnavano le scampagnate

I pomeriggi festivi erano dedicati alle scampagnate nelle osterie del territorio fiumano a Cosala, Drenova, Gròhovo, Pioppi, Gelsi, Valscurigna, Cantrida e Fabbro, in quelle del comune di Tersatto, cioè a Tersatto stesso, a San Martino, Sant’Anna, Draga e Orehovìzza, o in quelle dell’Istria liburnica a Volosca, Ica, Mattuglie, Rucavazzo e Castua.
Operai del Silurificio (fondaristi chiamati così perché questo celebre opificio era sorto da una modesta fonderia), scaricatori del porto, piccoli bottegai si recavano a “far fraja” in numerose comitive, stipati nelle carrozze e nelle giardiniere appositamente noleggiate.
Si incominciava già nelle prime ore del pomeriggio con abbondanti merende a base di pesce e “bracatole”, si giocava a bocce e carte, vuotando innumerevoli boccali. La pacchia proseguiva a mensa per la cena, riprendendo poi il gioco delle carte.
L’allegria non degenerava
In queste gite, racconta il Gigante, si mangiava e si beveva smodatamente. Ma l’allegria non degenerava mai in risse. Se poi questa gente trovava in un’osteria del vino di proprio gusto era capace di rimanervi fino a che non vedevano il fondo della botte, dimenticando per due o tre giorni di ritornare al lavoro.
Le scampagnate non erano disdegnate neppure dalle persone colte e dai professionisti, che preferivano farle nel pomeriggio o la sera dei giorni feriali. “E in quanto a lavorare di mandibole e di gorgozzule, non rimanevano indietro ai popolani”, fa notare con spirito Riccardo Gigante.

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