Rossi winery & distillery: una tradizione iniziata nel lontano 1885

A colloquio con il connazionale Marino Rossi, la cui famiglia a Baichini produce vini portando avanti una storia d’amore per l’agricoltura avviata 136 anni fa

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Rossi winery & distillery: una tradizione iniziata nel lontano 1885

Quella della famiglia Rossi è una lunga storia, fatta di successi, sacrifici, tradizione, lavoro. È una storia d’impegno e d’amore verso l’agricoltura che, iniziata dal bisnonno Federico, vede oggi impegnati il pronipote Marino, sua moglie Ines e i figli Luka, Marko e Filip, produttori di eccellenti vini e grappe note sul mercato nazionale e internazionale.

 

”La nostra storia inizia nel 1865 – così Marino Rossi – con la nascita di mio bisnonno, in un paese tra Udine e Tolmezzo. La famiglia era numerosa, la mamma era morta partorendolo ed egli fu consegnato all’orfanotrofio a Trieste assieme a una sorella. Il bisnonno fu poi adottato da una famiglia di Baichini, la sorella a Castellier. Al tempo dell’Austria-Ungheria chi adottava bambini dall’orfanotrofio veniva pagato. Questa famiglia di Baichini aveva già un bambino piccolo, erano poveri, non mancava loro da mangiare, ma soldi. Perciò adottarono mio bisnonno. All’età di 7-8 anni egli andò a lavorare, a portare a pascolare i tacchini di una famiglia vicina, la più benestante del paese. Vi lavorava anche la bisnonna e s’innamorarono, iniziando la loro vita in comune. Prima della nascita del loro primo figlio, furono cacciati poiché, con l’incremento del loro nucleo familiare, non avrebbero potuto dedicarsi tanto al lavoro. Andarono a vivere in campagna, nelle ‘coce’, le case costruite con paglia e strame. Lì avvenne il primo parto e poi giunsero nella casa dove viviamo noi oggi. Qui viveva una coppia di anziani che non aveva nessuno, che accolsero i miei bisnonni a condizione che li accudiscano, in cambio dei loro beni: la casa e un terreno agricolo”.

La famiglia Rossi

Il più ricco al mondo

All’epoca vi vivevano cinque famiglie, che sono andate via. Era il 1885 quando i bisnonni di Marino Rossi entrarono nella stessa casa. La famiglia conserva ancora il contratto siglato allora con quegli anziani. “Il bisnonno pensava allora d’essere il più ricco al mondo: per la prima volta nella vita aveva qualcosa di suo. Così era iniziata l’avventura agricola della nostra famiglia. Da qui anche l’anno inciso sul nostro logo, considerando quest’annata il punto di partenza di un’attività che poi si è lentamente evoluta. Io appartengo alla quarta generazione, i miei figli alla quinta e tra qualche giorno nascerà il primo esponente della sesta, tutti vissuti finora in questa casa”, ha aggiunto.

Quindi, una presenza generazionale e una continuità agricola che difficilmente hanno paragoni in Istria?

”Sì. Ci sono vitivinicoltori che per ragioni e necessità varie hanno lavorato in aziende, occupandosi di lavoro agricolo nel tempo libero. Poi sono venute di moda le vigne e le cantine vinicole private. Noi siamo rimasti sempre a lavorare la terra. Oggi stiamo evolvendo quest’esperienza: c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare e da introdurre, cogliendo anche le novità internazionali, studiando le aree più progredite, come la Toscana, il Piemonte o quelle della Francia”.

Tornando indietro, com’è proseguita la vostra vicenda?

”È andata avanti con il nonno, che iniziò l’ampliamento dei possessi, acquistando in un solo botto 16 ettari di superficie da una banca triestina. Questi terreni appartenevano a una famiglia di Visinada che era andata via dopo la Prima guerra mondiale. All’epoca i 16 ettari corrispondevano al valore di 16 manzi. Rischiò grosso, poiché a casa possedevano solo un asino. Tuttavia, fece bene i suoi calcoli. Richiese il taglio del bosco e il materiale fu trasportato attraverso il fiume Quieto al porto di Antenal, da dove il legname fu commercializzato a Venezia e a Genova. Ciò avvenne nella prima metà degli anni Trenta. Con questa vendita il nonno voleva guadagnare i soldi necessari per l’acquisto dei terreni. Da questo primo ampliamento dei terreni in poi si è sempre acquistato o venduto qualcosa, a seconda delle esigenze di lavoro. Adesso si guarda di disporre di superfici adatte alla viticoltura e all’olivicoltura, quelle altre di tipo campo aperto o arativi non ne abbiamo. Prima coltivavamo un po’ di tutto, avevamo armenti, maiali, ecc., ma poi abbiamo deciso di rivoluzionare il nostro lavoro e di specializzarci. Siamo partiti con trattori e macchine strette adatte al lavoro nelle vigne, trasformando i campi aperti in vigneti e oliveti se erano adatti a queste colture, vendendoli se non lo erano, in cambio di superfici adatte alle nostre attività”.

Avete vissuto anche l’esperienza jugoslava…

”Fino al 2000-2002 in Istria eravamo poco noti per la produzione vinicola. Ci conoscevano un po’ di più per le grappe. Questo perché il vino, lo vendevamo a Trieste. Lo smercio avveniva su conto autonomo, con le cisterne che venivano da noi. I nostri clienti erano i ristoratori triestini, che ogni anno dopo la vendemmia venivano a seguire personalmente il processo di vinificazione. Quando giungevano le autobotti a prendere il vino, già si sapeva a quale ristorante era indirizzato. Il tutto passava prima attraverso alcune delle grandi cantine triestine, che poi lo trasferivano ai ristoranti. Tutto questo processo avveniva legalmente, o con le carte, e il ricavato era versato su un conto autonomo aperto nella Zona B di quello che era considerato il Territorio libero di Trieste. Così che il tutto passava senza spese IVA e quelle doganali. Questo era un bene, perché si aveva il permesso d’esportare e importare merce di valore verso l’Italia e dallo stesso Paese. L’importato doveva essere consumato o venduto al minuto nel Buiese. E noi avevamo l’azienda a Buie. In seguito l’abbiamo trasferita qui.

In Jugoslavia ci eravamo abituati a vivere bene: se badavi solo agli affari tuoi e non ti occupavi di politica, potevi avere una vita tranquilla e buona, ma non si poteva fare carriera. Mi ricordo che all’inizio degli anni Settanta, o intorno alla metà del decennio forse, andavo con mio padre alle varie riunioni, che qui a Baichini si svolgevano nell’edificio scolastico. Dicevano che noi contadini siamo il freno di sviluppo del socialismo d’autogoverno. C’erano dei problemi anche negli anni dopo la Seconda guerra mondiale, quando s’invitava i contadini a entrare a far parte delle Cooperative agricole, al cui richiamo i miei resistettero. Con la Riforma agraria, essendo stati i nostri possessi al di sotto dei limiti allora imposti, non ci tolsero nulla. Certo, allora ci mancavano altre cose, non potevamo ampliare i nostri possessi e operare come al giorno d’oggi”.

Marino Rossi

L’annata 2021

Com’è la vostra azienda oggi?

”Adesso coltiviamo 70.000 viti, intorno ai 17 ettari di vigneti, e 1.300 olivi. Di olivi abbiamo di tutto un po’ e anche quando li raccogliamo, facciamo un prodotto mescolato. Abbiamo piante di Leccino, Pendolino, Bianchera, Busa, Ascolana. Per quanto riguarda i vigneti coltiviamo la Malvasia, il nostro prodotto più importante, Terrano, Cabernet sauvignon, Merlot e Pinot nero, Chardonnay e Moscato giallo. Prevale la Malvasia, bene accolta anche dai turisti, che preferiscono i vini autoctoni. Abbiamo il coupage dei bianchi, come pure il nostro Moro, una miscela di Merlot, Cabernet sauvignon e Terrano. I vini misti si vendono d’ogni singola qualità specializzata, basta farli bene, selezionando le uve migliori. I prodotti migliori li imbottigliamo, gli altri li piazziamo a rinfuso, a prezzi ridotti.

I vini rossi d’imbottigliamento vengono prima tenuti nelle botti lignee, un po’ in quelle barricate piccole da 225 litri, un po’ in quelle da 500 litri e altre quantità in quelle da 1000 o 3000 litri. Gli anziani sostenevano che, per essere pronti, i vini rossi dovevano avere almeno due anni d’invecchiamento, la Malvasia, invece, la si vendeva quasi immediatamente. Con l’introduzione delle botti in inox la qualità dei vini rossi è decaduta perché non invecchiavano in quelle lignee. Dei vini bianchi, mettiamo in botti lignee un po’ di Malvasia e un po’ di Chardonnay. Ma soltanto se l’annata è buona… Il vino passato dal 2016 per le botti lignee, dov’era per due anni, e per l’inox, per essere in seguito imbottigliato, è stato premiato a Londra, all’importante competizione ‘International Wine Challenge’, con la medaglia d’oro. Al secondo giro erano stati valutati tutti i vini croati, e la nostra Malvasia è stata la migliore. Siamo tuttora premiati per le nostre grappe e i liquori”.

Che cosa ci può dire di quest’annata?

”L’inizio dell’anno pareva una catastrofe, invece dopo è andato tutto bene e anche le piogge erano ottimali, come tutto il resto. Con il freddo del 6 aprile, la temperatura era scesa a -8 in una vigna più a valle, in cui c’è sempre meno quantità, ma che dà un prodotto dagli ottimi aromi, le viti si sono gelate. Stiamo parlando di un migliaio di vitigni circa. Eravamo convinti di maggiori problemi di vendita a causa dell’epidemia di coronavirus: in alcuni periodi tutto era chiuso. L’anno scorso in primavera avevamo venduto poche bottiglie in quattro mesi. E la cosa era preoccupante perché era necessario disporre del denaro per gli operai, i prestiti, gli obblighi, per noi e per far sopravvivere l’azienda. La primavera di quest’anno era pure molto incerta, ma poi l’annata è proseguita eccellentemente e attualmente operiamo ai livelli del 2019. Vedremo come sarà l’autunno per quanto riguarda le vendite. Ci sono poi i danni recati dalla selvaggina, a cui stiamo ovviando con l’introduzione del cosiddetto pastore elettrico. Eppoi sono iniziati i grossi problemi causati dai virus portati da alcuni insetti, le farfalle e le zanzare. Per questo motivo negli ultimi anni si lavora con gli insetticidi, che non sono buoni per la natura e per la vite. Ma se non si fa così, il prodotto viene distrutto. Con i trattamenti si rovinano gli insetti buoni, i ragni, le coccinelle. Oggi nelle vigne di Malvasia e di uva rossa, sulla foglie, prima della vendemmia, si nota il ragno rosso, mai prima presente in questa stagione, perché veniva distrutto dai nemici naturali, che ora mancano. L’effetto del suo danno corrisponde a quello generato dai virus”.

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