Pola. Il rosa di Verona è ormai un radicchio… de luxe

Il caro verdura non è una moda passeggera. Al mercato ortofrutticolo di piazza del Popolo questi prezzi assurdi non accennano a diminuire

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Pola. Il rosa di Verona è ormai un radicchio… de luxe
Il “caro verdura” in piazza del Popolo. Foto: Daria Deghenghi

Il rosa di Verona, accanto al “verde”, al “rosso” e al “variegato”, è quel genere di ortaggio, di radicchio, di cui non sappiamo proprio fare a meno. C’è solo un problema. Costa un occhio della testa e il suo prezzo, a parità di peso, sfiora o pareggia i prezzi dei migliori tagli di carne. D’accordo, è un ortaggio eccellente, è un IGP, un DOC o un DOP, qualunque cosa sia, tanto di cappello al valore. È l’orgoglio della città alla quale deve il nome, l’orgoglio del Veneto come gli altri suoi parenti stretti (il Trevigiano, il Chioggia, il Gorizia…), ed è inimitabile anche in terra d’Istria dove riesce ugualmente bene, come a casa perché appunto di casa. Ma caspita, quanto ci costa! Ormai siamo anche stanchi di ripeterlo: otto euro sono tanti, tantissimi soldi. Otto euro sono le 60 kune di due anni fa, e scusateci se è poco. Otto euro sono un chilo e mezzo di carne suina, un altro chilo di ottima carne bovina, due chili di macinato misto, insomma, otto euro sono otto euro.

La spesa al mercato di piazza del Popolo è diventata un supplizio per gli amanti della buona verdura a chilometro zero e siamo in tanti a sospirare per come sono cambiate, in appena due o tre anni dalla pandemia, le nostre condizioni economiche, il nostro potere d’acquisto, la nostra capacità o incapacità di rincorrere, con gli introiti, i prezzi che cavalcano l’onda dell’inflazione. D’accordo che lavorare i campi costa fatica. La terra è bassa, recita un vecchio proverbio contadino e non sbaglia. Tra tutti i lavori possibili, l’agricoltura è sempre stata un’occupazione incerta per guadagni e dura per la fatica fisica richiesta, benché le sarte operaie, col capo chino, la schiena curva e l’occhio stanco potrebbero unirsi al coro e chissà quante altre professioni precarie, sottopagate, svalutate e snobbate potrebbero dire la loro, se solo potessero farlo.
Assodato il costo di otto euro del radicchio, vediamo che nemmeno con la valerianella si scherza, anzi. Ieri mattina l’abbiamo trovata a 10 euro il chilogrammo, e non è neanche il suo prezzo massimo, perché arriva sovente a 15 euro, ma allora la vendono un etto alla volta per non scoraggiare i clienti con l’acquolina in bocca. Anche l’indivia riccia costa 10 euro il chilo mentre la comunissima lattuga è in vendita a soli 4 euro. “Soli” si fa per dire. Tra l’altro questi benedetti quattro euro sono diventati un prezzo universalmente valido, la moneta franca che va bene in tutti i casi. Spinaci, bietole, cipolla rossa, porri, broccoli, cavolfiore, cavolo romano, patata dolce, mela cotogna, melagrana e altro ben di Dio che ora ci sfugge costano quattro euro tondi al chilo, non un centesimo di meno, dappertutto, come se gli ortolani avessero pattuito e ratificato l’accordo dal notaio. Idem per frutta e ortaggi venduti a due euro tondi (patate, cipolla gialla, cavolo cappuccio, rapa nera e mandarino) e per quelli in vendita a tre euro tondi su tutte le bancarelle, dalla prima all’ultima: carote, rapa rossa o barbabietola, pere, arance e limoni. Insomma, la solita solfa. La colpa è dell’aumento generalizzato dei costi di produzione, che includono la spese per acqua, la luce, i fertilizzanti, il lavoro. Se costa tutto di più, il prodotto finale ne risentirà di conseguenza. Che sia una magra consolazione, è chiaro.

Quattro euro è la valuta… universale.
Foto: Daria Deghenghi

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