
C’era una volta il granchio rosso detto “gransievola”, delizia del palato, cavallo di battaglia dei migliori ristoranti di pesce e pasto dalle grandi occasioni in casa. C’era, ma ora non c’è più e se lo si trova in circolazione una o due volte l’anno è già troppo. In compenso ora c’è il granchio blu, all’anagrafe Callinectes sapidus Rathbun, specie aliena, originaria dell’Atlantico, ma ormai presente ovunque dal Mare del Nord al Baltico, dal Mediterraneo al Mar Giallo. È vero, questo granchio si mangia e non è neanche male. Ieri lo abbiamo trovato tra i dentici e le orate su un banco della pescheria al prezzo di 15 euro il chilogrammo, ma con pochi clienti disposti a portarselo a casa. In fatto di pesce, i polesi sono conservatori. Il massimo della “stravaganza” che ammettono a tavola sono il salmone dei mari del nord e naturalmente lo stoccafisso che con l’extravergine diventa baccalà mantecato alla veneziana e quindi un piatto nostrano a prescindere dalla provenienza del pesce. Un granchio blu tra le pietanze dei giorni di festa è invece una proposta che stenta a decollare anche se i cuochi dei ristoranti alla moda lo raccomandano. Ma la cattiva fama di predatore dei mari non sembra aiutare la causa della sua ascesa al trono della dieta mediterranea. Non avendo competitori che mettano fine alla sua espansione, ed essendo un vorace divoratore di ogni ben di Dio dagli avannotti ai crostacei, con una passione speciale per le vongole, il granchio alieno contribuisce a impoverire l’Adriatico delle specie autoctone. Per assurdo, per contenerne l’espansione bisognerebbe proprio che ci mettessimo a mangiarlo in quantità industriali, ma le cose non sono così semplici.

Foto: DARIA DEGHENGHI
Chiusa la parentesi sul granchio blu, il suo aspetto d’altro mondo e la sua brutta fama, vediamo un po’ che cosa si può trovare di meno alieno tra le specie ittiche in commercio. La stagione è buona per fare provviste di pesce azzurro, sarde e acciughe in primo luogo (perché gli scombri sono ormai rari come le mosche bianche): sono relativamente convenienti e tutta salute. Come li scaricano in piazza la mattina, così si vendono a palate e fino a mezzogiorno le scorte sono bell’e finite. Ora ne avremo certamente fino a Natale, ma poi scatterà un altro altolà ai pescherecci col fermo pesca di Capodanno che durerà tutto gennaio e metà febbraio. Le sardelle costano 4 euro e le acciughe 5; in passato erano state ben più convenienti, ma i prezzi di una volta ormai ce li sogniamo. I cefali costano 5, i suri 6, le triglie 6 e 8, ma gli esemplari più in carne arrivano a costare anche 22 euro al chilo. Orate e branzini di allevamento da 12 a 28 euro, in rapporto alla pezzatura, le orate selvatiche da 11 a 24, le seppie 13, i calamari e i polipi 20, i gamberi da 15 a 22, le capesante solo 22 e i dentici 25 euro il chilogrammo. Il tonno a tranci si trova in commercio a 20 euro il chilo, come le sogliole. E poi? Poi basta. Siamo in novembre e la città sonnecchia.

Foto: DARIA DEGHENGHI

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