«Ho fatto soltanto il mio mestiere»

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«Ho fatto soltanto il mio mestiere»

Un volto noto, un volto amico tra i benemeriti di Pola, quest’anno. Su iniziativa della Comunità degli Italiani, al dottor Antonio Mirković va il Premio Città di Pola, la più importante delle benemerenze municipali a cui si affiancano lo Stemma, la Pergamena e la Cittadinanza onoraria, nonché, all’occasione, alcuni premi elargiti a discrezione del sindaco che non devono passare per il filtro del Consiglio municipale. Abbiamo intervistato il connazionale Antonio Mirković alla vigilia della cerimonia di conferimento dei riconoscimenti che si terrà quest’oggi al Teatro Popolare Istriano di Pola, con inizio alle 11. Il premiato non ha bisogno di tante presentazioni, né la benemerenza ha bisogno di eccessive motivazioni. Antonio Mirković, medico di fiducia di generazioni di polesi e istriani e, nell’età seguita al pensionamento, attento ricercatore della storia, delle tradizioni e dei costumi istriani, pubblicista, scrittore, collezionista, è stato già insignito dell’onorificenza dell’Ordine della Stella d’Italia nel grado di Cavaliere. Oggi, a 88 anni, corona una lunga carriera professionale e un proficuo impegno sociale con la massima onorificenza municipale.

Dottor Mirković, è un onore essere insigniti del Premio Città di Pola, a maggior ragione se sono pochi, come sono effettivamente, i connazionali a esserne stati decorati…

“Veramente la notizia mi ha trovato impreparato e meravigliato, perché credo veramente di avere fatto soltanto il mio mestiere. D’altro canto, è una soddisfazione morale che fa grande piacere, benché io non sia il tipo da vantarmene, da metterlo in mostra. Comunque sia, un riconoscimento che arriva dalla propria città natale è sempre un bel traguardo. Di certo è meglio essere ricordati per delle caratteristiche positive piuttosto che per qualcosa di negativo, dico bene?”

Il primo iscritto a Fiume

Lei è nato a Pola nel 1929: che cosa ricorda dell’età della formazione, degli studi a Zagabria, dei primi anni di esercizio della professione?

“Sono nato a Pola ma per coincidenza ho fatto le elementari e le medie a Pisino perché la famiglia aveva seguito il padre nelle sue esigenze di trasferimento per motivi di lavoro. Poi ho studiato medicina a Zagabria, ma sempre per coincidenza ho preso la laurea a Fiume. Ero già all’ultimo anno quando, nel 1957, l’Università di Fiume aprì la Facoltà di medicina in città e decisi di trasferirmi, per ragioni di natura esclusivamente economica: dovevo, insomma, risparmiare quei pochi soldi che c’erano a disposizione per i miei studi. Il mio trasferimento a Fiume mi è costato la perdita di un semestre, ma mi ha anche riservato l’onore del primo numero di matricola in assoluto della Facoltà di medicina di Fiume: ero il primo studente iscritto e il suo primo laureato. Una curiosità, da raccontare così, di passaggio…”

I connazionali la ricordano non soltanto per la sua devozione alla medicina, ma anche per l’impegno sociale, la presenza al Circolo, l’attività culturale ed editoriale a favore degli italiani di Pola…

“Ai tempi di Claudio Radin al Circolo mi affidarono il settore della Cultura, e a dire il vero inizialmente non me ne rallegrai molto, perché non mi sembrava di possedere le competenze necessarie; ma poi ne venne fuori qualcosa di positivo. Il foglio informativo della Comunità degli Italiani, “El clivo”, è stata una nostra iniziativa e tutto sommato non si può dire che non sia stata buona”.

Le due facce della medaglia

Com’era fare il medico negli anni Cinquanta e Sessanta a differenza di oggi?

“Guardi, le dirò, come nella vita, così anche nelle professioni, il lato bello e il lato brutto sono le due facce opposte della stessa medaglia. La società socialista ha avuto aspetti negativi come ha avuto degli inconfutabili aspetti positivi. In quel tempo ognuno aveva l’accesso assicurato a tutti i servizi della sanità pubblica gratuita, mentre non si può dire la stessa cosa dell’attuale sistema sanitario nazionale. D’altro canto, uno degli aspetti particolarmente negativi di questa gratuità e reperibilità del servizio era che in tanti ne abusavano. C’erano degli individui che non provavano alcun rimorso a chiamare il medico alle tre di notte per fingere un malessere inesistente e richiedere l’assenza giustificata dal lavoro, e se poi non gliel’accordavamo, fioccavano insulti e minacce. Se la situazione oggi vi pare incredibile, le faccio presente che all’epoca l’intellettuale era mal visto, e l’operaio aveva sempre ragione…

D’altro canto, la medicina degli anni Cinquanta disponeva di pochissime tecnologie diagnostiche e questa carenza tecnologica era compensata dal fatto che il medico, per curare i propri pazienti, era davvero interessato ad ascoltarne le testimonianze, cosa che oggi succede di rado o non succede affatto. L’iter diagnostico di oggi è una catena inumana di esami, prelievi, radiografie, ecografie, tomografie senza il beneficio dell’ascolto e del contatto diretto tra paziente e medico curante. Un tempo eravamo obbligati a leggere tra le righe, a studiare, a saperne di più. In secondo luogo, eravamo obbligati a una poliedricità oggi impensabile in medicina: eravamo medici di base ma, di fatto, facevamo partorire le donne, gli aborti, eravamo ginecologi e pediatri al tempo stesso, specie in località lontane dall’ospedale di Pola, come a Pisino, dove c’era la necessità di intervenire subito per salvare la vita.”

Il riconoscimento dei sissanesi

Un attimo, ma l’aborto non era ancora legale, o sbaglio?

“E no, e infatti le donne se lo procuravano da sole con la chinina o con strumenti di ogni genere, spesso rischiando la pelle. Il medico era chiamato a intervenire soltanto in caso di emorragie che mettevano a repentaglio la vita della donna. La mia generazione deve molto al dottor Matijašić, chirurgo e primario di Chirurgia dell’ospedale di Pola, che ci diede le conoscenze e ci trasmise le abilità necessarie a svolgere interventi chirurgici di prima necessità malgrado non avessimo una specializzazione formale in questa disciplina. Ironia della sorte, il dottor Matijašić era stato nominato al Premio Città di Pola come me e prima di me, ma non accettò mai quel riconoscimento. Ricordo che nel rifiutarlo disse di aver fatto soltanto il proprio mestiere e di essere stato retribuito per averlo fatto. Un uomo che ricordiamo con grande devozione e affetto”.

Come mai a Sissano la comunità italiana la considera ancora un amico, quasi un socio d’onore?

“Eh già, a Sissano è come se fossi a casa. In verità fui tra i fautori della riapertura della scuola italiana in quel di Sissano, e all’epoca non si era trattato di un impegno da poco. Occorreva bussare a diverse porte, a volte anche sfondare dei muri, ma alla fine ci riuscimmo e finalmente gli italiani di Sissano riebbero la possibilità di far studiare i propri figli in italiano. Un altro paio di maniche è il fatto che l’iniziativa andò incontro a diversi ostacoli, a una campagna negativa e talvolta anche a pressioni esplicite nei confronti delle famiglie. L’esito di questa battaglia è stata un’adesione molto tiepida e l’iscrizione di soli due alunni alla prima… prima classe. Eravamo i pionieri di un’attività contestata e osteggiata. Oggi mi guardo intorno e vedo tanti italiani e italiani, e mi viene da chiedere: dov’eravate nel momento del bisogno?”

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