«Curare e gestire un acquario è un lavoro che non finisce mai»

Intervista a Milena Mičić, l’oceanografa titolare dell’impianto inaugurato esattamente 20 anni fa

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«Curare e gestire un acquario è un lavoro che non finisce mai»
L’acquario polese è anche un Centro di recupero per tartarughe marine. Foto: DARIA DEGHENGHI

Venti candeline sulla torta di compleanno dell’Acquario di Verudella. Oggi, vent’anni fa, il 21 settembre 2002, l’oceanografa Milena Mičić trasferiva le sue poche vasche con appena qualche decina di specie di pesci da Puntisella (dove fece decollare la sua prima impresa commerciale) alla Fortezza di Verudella, che sarebbe diventata in seguito la sua dimora definitiva (oggi, per altro, allargata alla vicina Batteria di San Giovanni). Impossibile non festeggiare. La cerimonia per le autorità, gli ospiti e il pubblico si avrà domani sera con inizio alle ore 18 in collaborazione con l’Università degli studi di Pola e il Museo di storia e marineria dell’Istria. Anticipando l’evento abbiamo intervistato la biologa-imprenditrice insignita di innumerevoli riconoscimenti per avere lanciato e sviluppato un’attività commerciale in grado di sostenere il peso del restauro di un bene culturale della Repubblica senza fondi pubblici. A cose fatte, ogni impresa sembra facile e naturale perché chi reca testimonianza dei fatti è colui che ha avuto successo. Tutti gli altri non hanno voce, ma sono un esercito. Le probabilità del successo? In realtà sono poche.

Col senno di poi, come giudica l’esordio? Potrebbe giurare che rifarebbe tutto come la prima volta?
“Le dirò in tutta onestà: vent’anni fa non avevo la più pallida idea di ciò in cui mi stavo cacciando. E forse è un bene che sia così. Voglio dire, è un bene non avere la cognizione precisa degli ostacoli che verranno perché altrimenti la rinuncia sarebbe la via più facile e la soluzione più scontata. All’epoca ero una biologa marina all’Istituto oceanografico: una laurea, un dottorato di ricerca, il posto fisso, come si usa dire, insomma, una carriera nel campo della ricerca. Ma ero troppo interessata alla divulgazione scientifica per continuare così, avevo questo chiodo fisso della popolarizzazione delle scienze del mare. Un desiderio pressante. Possedevo un bagaglio di nozioni e una specie di intuizione, di fiuto che mi ha indicato la strada, ma non avevo la benché minima esperienza imprenditoriale. Allora ho cercato di fare tesoro delle professioni dei miei congiunti: mio marito era legale, i miei genitori avevano studiato economia e commercio. Mi sono messa a studiare col loro aiuto e l’ingranaggio si è messo in moto. Quando mi chiedono che cosa incide sul successo la prima cosa che mi viene in mente di dire è ‘la passione’. Ma le cose non sono così semplici. La passione è certamente indispensabile, ma senza l’equilibrio che viene dall’uso della ragione non si conclude alcunché. Quando s’imbocca una strada che ha tutta l’aria di essere un vicolo cieco, è bene abbandonarla. Anche quando una via sembra promettere più possibilità di ricavi a breve scadenza, bisogna saper rinunciare al guadagno facile se la scelta si allontana troppo dagli scopi a lungo termine. Il fatto che ci siamo mossi lentamente, con circospezione e senza inseguire il miraggio della massimizzazione dei profitti, deve aver giovato al successo dell’acquario odierno”.

I soldi non sono importanti?
“I soldi sono importanti ma non sono tutto. Probabilmente ad aver avuto un’eredità l’avrei impegnata senza pensarci due volte, ma i soldi erano contati e quindi abbiamo avuto la necessità di fare un passo alla volta e cioè reinvestire l’utile di anno in anno senza mai godere dei guadagni. In secondo luogo, non è possibile sacrificare la coerenza morale al guadagno. Cinque anni fa abbiamo smesso di vendere acqua e succhi di frutta in bottiglie PVC perché non era eticamente possibile continuare a predicare la protezione degli oceani dalla plastica continuando a venere quintali di bottiglie l’anno. Ci abbiamo rimesso? Certamente. Ma era la strada giusta da fare, tanto più che oggi la nostra attività è sempre più indirizzata alla protezione ambientale, alla conservazione delle specie a rischio d’estinzione”.

Per fare un paragone con gli albori, quante sono le vasche e le specie marine oggi rispetto ad allora?
“Mi lasci fare un po’ di mente locale perché queste sono cose a cui non penso più da anni. Dunque… A Puntisella siamo partiti con otto, nove vasche, con una capienza complessiva tra i 200 e i 350 litri, nulla di più. La prima collezione contava pressappoco una trentina di specie ittiche. Col trasferimento a Verudella e le prime vasche in muratura, la piscina delle razze…, siamo partiti con 50.000 litri nel 2002. Recentemente abbiamo avuto in dotazione la Batteria di San Giovanni e questo punto siamo a quota 600.000 litri in due sedi con circa 200 specie di organismi marini. A presentarla così, sembra una strada di sola salita, ma resta il fatto che per otto anni io e mio marito abbiamo fatto due mestieri senza nessuna speranza di ricavare uno stipendio con l’acquario. Tutto il personale, che oggi conta 35 dipendenti, è una creazione relativamente recente, un frutto tardo per così dire. Due terzi sono specialisti: i biologi marini sono in netta maggioranza, ma lo staff include anche agronomi, farmacisti, biologi della conservazione ovvero esperti di recupero e ripristino di ecosistemi. Il bagaglio di esperienze di questo team è incommensurabile ed è uno dei nostri maggiori motivi di orgoglio”.

Se si esclude l’orgoglio d’aver restaurato una fortezza che stava andando in rovina…
“Effettivamente nel 2002 il Forte Verudella si trovava in pessime condizioni. Oggi le opere fortificate dell’Austria-Ungheria sono sotto tutela in quanto beni culturali della Repubblica, ma non è stato così fin dall’inizio. In passato alcune sono state sacrificate sull’altare dell’espansione edilizia e demografica. È soltanto dal 2008 in qua che le fortezze sono sotto il controllo della Soprintendenza ai beni culturali. Oggi un’opera di recupero come questa viene definita un investimento ‘brownfield’, ma all’epoca era letteralmente un’impresa pionieristica. La fortezza versava in condizioni pietose e non serviva ad alcunché. Ora che ci penso, per anni non abbiamo fatto altro che pulire, pulire e pulire. Sfoltire, lottare contro l’umidità, contro le infiltrazioni d’acqua. Per concepire e approfondire una conoscenza della materia ci siamo messi in contatto con gli esperti del Ministero della Cultura e abbiamo seguito le orme di Erwin Anton Grestenberger, autore dell’atlante delle opere fortificate austriache di Pola “Festung Pula”. Anche oggi le opere cosiddette “minori” giacciono dimenticate e senza manutenzione sul territorio senza itinerari, scopi o attività che le valorizzino adeguatamente. Nel 2009 abbiamo cominciato a cullare l’idea di dotare la fortezza di una copertura in bronzo per sistemare nell’area centrale interna una vasca a tre livelli da popolare con pescecani. Ebbene ci abbiamo messo 4 milioni e dieci anni per realizzare l’intervento sotto un’attenta supervisione degli esperti in conservazione dei beni culturali”.

Una fortezza è un pozzo senza fondo?
“Se non lo è, poco ci manca. Effettivamente i tempi di ritorno di un investimento come questo sono lunghissimi. Fino al 2018 abbiamo sempre sbarcato il lunario con prestiti a breve termine. L’estate portava i soldi, l’inverno li spendeva e non bastavano mai. Tra una stagione e l’altra ci siamo sempre rivolti agli istituti di credito per avere una mano a ‘svernare’. Soltanto dal 2018 in qua possiamo dire d’aver raggiunto una tranquillità economica per noi e per i nostri dipendenti. Ci tengo a precisare che quest’opera fortificata è autosufficiente nel senso che non richiede alcun contributo pubblico per la manutenzione. Magari ce ne fossero di più, ma questa non è la regola, è piuttosto un’eccezione. Tra l’altro anche dopo aver raggiunto una sicurezza economica, staccare biglietti non è la cosa più facile del mondo senza nuovi investimenti. I tempi sono cambiati e tutto costa più caro di una volta. Oggi per avere tre pesciolini dal Congo dobbiamo racimolare la bellezza di 50.000 euro tra l’acquisto, le spedizioni, le tasse… Curare e gestire un acquario è un lavoro che non finisce mai, anche senza l’impegno della conservazione delle specie a rischio e la missione a favore della biodiversità che ci portano via sempre più tempo e risorse. Spero che possa durare a lungo anche dopo che noi fondatori ce ne saremo andati”.

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