
“Nulla sveglia un ricordo quanto un odore”, scrisse Victor Hugo nel suo capolavoro “I miserabili”. Oggi però non vogliamo parlarvi di letteratura, il filo conduttore della nostra storia è il profumo dei dolci appena sfornati che avvolge l’ambiente con il suo tepore ricco di aromi, riportandoci indietro nel tempo. Lo stesso profumo intenso e fragrante che ci ha accolti nelle case di Miryam Haipel e Zora Klarić, intente a preparare la pinza e condividere con noi il loro sapere e le loro abilità. Una fragranza intensa, che sa di affetti, di infanzia e di famiglia e ci proietta in un tempo lontano popolato da nonne e da focolari, da bambini che attendono con ansia la Pasqua e da tavole imbandite per un pranzo domenicale da trascorrere in compagnia e in letizia.

Abbiamo voluto incontrare due nostre connazionali, con alle spalle storie ed esperienze differenti che hanno una passione in comune: la pasticceria. Approfittando del periodo pasquale abbiamo chiesto loro di condividere con noi la ricetta della pinza, ci hanno così aperto i loro cuori riportando a galla ricordi e tradizioni di famiglia per farci comprendere meglio perché questo dolce sia tanto amato. Se sfogliate un qualsiasi libro di cucina triestina o istriana troverete sicuramente la ricetta del dessert in questione, così come è possibile seguire passo dopo passo il procedimento per realizzarlo su youtube o sui vari social network. Inoltre, utilizzando qualsiasi motore di ricerca si scopre che la pinza è una delizia diffusa in una zona molto ampia, che va da Gorizia a Fiume, senza tralasciare Trieste e l’Istria. A questo prodotto dolciario sono legate molteplici tradizioni ed esistono molte varianti, ma noi volevamo proporvi un racconto personale, forse intimo, legato al nostro territorio, alla nostra identità e alla nostra storia per scoprire come viene vissuta la Pasqua in due località della penisola istriana.
Un regalo speciale…
Miryam è una giovane mamma originaria di Muggia, che oggi vive in quel di Babici, nel circondario di Umago, con il compagno e le sue tre bimbe. Lei i primi dolci li ha sfornati a 8 anni, grazie al libro “Cucina facile per bambini” ricevuto per compleanno. “Mi sono lanciata nella pasticceria con dei biscotti, era un bel libro, poi c’era anche il cappello da cuoco, quindi era perfetto! Ho iniziato con l’aiuto della mamma che maneggiava il forno, poi negli anni ho provato a infornare molte altre ricette”. Un regalo più che azzeccato, tanto che oggi la ragazza sogna di aprire un laboratorio di pasticceria dove realizzare torte e altre prelibatezze su ordinazione.

“Non tutti i giovani hanno la passione del tramandare le tradizioni, invece a me piace tantissimo. È un modo per andare alla ricerca delle radici della famiglia, non solo della cucina, perché dà un senso di calore e amore. Secondo me una delle frasi più belle a cui mi ispiro è quella di Charles Pierre Monselet che dice: ‘Le ore più belle della nostra vita sono quasi tutte collegate, con un legame più o meno tangibile, a un ricordo della tavola”. Ci spiega Miryam mentre ci accoglie a casa, iniziando a raccontarci la sua storia, finché le pinze triestine stanno ancora lievitando. “L’anno scorso ho perso mia nonna Lisetta, lei era proprio quella che faceva le pinze. Non c’era Pasqua senza questo dolce, quindi rifarla adesso che non c’è più è un modo per sentirla ancora vicina – confida la giovane -. Però non ho imparato da lei, quando le chiedevo la ricetta mi diceva: ‘Te meti questo, te meti quel e te ga fato! Cosa ghe vol?’ faceva tutto a occhio. Inoltre non l’abbiamo mai preparata assieme; quando arrivavo a casa sua la pinza era già pronta, si svegliava alle 5 di mattina per impastarla”.
A Pasqua la nonna puntualmente serviva tre dolci: oltre alla pinza, erano immancabili la putiza e i krapfen per i nipoti; tutta questa abbondanza la condivideva anche con il vicinato e con il resto dei parenti. “I krapfen non sono dei dolci pasquali, ma lei ce li faceva lo stesso perché sapeva che piacevano tantissimo a noi bambini, poi magari li riempiva con la marmellata fatta in casa – ricorda Miryam -. Faceva tutto in grandi quantità che distribuiva alle amiche, alla famiglia, quindi ognuno aveva un pezzetto di qualcosa. Le sue pinze avevano l’odore di casa, ma non sapeva quantificare le dosi”. Una caratteristica molto diversa rispetto alla nipote, che invece rifà le ricette alla lettera, basandosi sul dosaggio indicato. “Seguo le indicazioni alla perfezione, non sgarro mai, perché so che se ripropongo fedelmente una ricetta questa riuscirà, invece se improvviso non si sa mai. È una cosa del mio carattere, anche nella vita non riesco a fare le cose a occhio”, ammette la ragazza. Ed è proprio l’elemento dell’accuratezza che l’ha spinta a innamorarsi della pasticceria. “Si tratta di precisione, nel senso che ogni ricetta ha la sua grammatura, quindi sono molto più a mio agio a informare dolci che a cucinare qualcosa di salato”, aggiunge.

Ingredienti genuini
Mentre chiacchieriamo è arrivata l’ora di controllare se le pinze sono lievitate abbastanza per essere spennellate con il tuorlo dell’uovo mescolato a un po’ di latte e incise con il tipico taglio a croce. Il segreto sta negli ingredienti genuini: uova di casa, arance e limoni rigorosamente biologici e farina di qualità. Infatti, dal colore giallo intenso dell’impasto si capisce subito che le uova utilizzate non sono quelle del supermercato e già prima di essere messe in forno si sente l’aroma intenso degli agrumi grattugiati all’interno. “Oltre alla pinza oggi ho fatto anche le titole, che si realizzano con il medesimo impasto e sono un dolce tipico di Trieste. Si intrecciano due parti di pasta alla cui estremità si posiziona un uovo. Quest’ultimo deve essere rosso e per ottenere questo colore è necessario farlo bollire assieme alle scorze di cipolla. Metto le pinze e le titole nel forno preriscaldato e ventilato, anche se su questo passaggio ci sono diverse versioni, ma ho imparato che per cuocere i lievitati si usa la modalità ventilata”, sottolinea Miryam, che alcuni anni fa ha frequentato un corso di pasticceria nell’ambito del piano PIPOL finanziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia per l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro.

“La prima volta che ho sfornato una pinza l’ho fatto proprio al corso, poi l’ho riproposta a casa l’anno dopo, mettendo in pratica tutte le conoscenze che avevo acquisito. Non sono riuscita a farla ogni anno, perché con le bambine che erano ancora piccine, non trovavo il tempo. Si tratta comunque di un dolce, non difficilissimo da realizzare, ma che necessita di molte ore per lievitare. Sulla sua riuscita influisce anche il clima, oggi è nuvoloso e l’impasto ci ha messo molto di più per gonfiarsi, mentre l’altro giorno c’era il sole e non ho avuto questo problema”, ci spiega la ragazza che partecipa regolarmente alle gare di dolci organizzate dalle locali Comunità degli Italiani con ottimi risultati, oltre che a portare le sue prelibatezza alle serate presso la “Fulvio Tomizza” di Umago.
Una volta infornate le pinze, continuiamo a chiacchierare e tra un argomento e l’altro ritorniamo alle tradizioni, in particolare a quelle triestine. Nel capoluogo giuliano questo pane dolce è un piatto che viene mangiato accostato a ingredienti salati: “La pinza non è troppo dolce, quindi spesso si mangia anche come antipasto, mettendoci sopra prosciutto cotto, kren e senape; poi viene riproposta a fine pranzo come dessert”, precisa. Nel frattempo i dolci sono pronti, lo si percepisce già dal profumo che inizia ad avvolgere la casa e, a confermarlo ulteriormente è il colore intenso della superficie. Infine, ogni dubbio viene spazzato via dalla prova dello stuzzicadenti per controllare se l’interno è ben cotto.

Bontà da inzuppare
“La pinza è un dolce molto spugnoso, infatti, alla mattina mia nonna lo inzuppava sempre nel caffellatte”, ricorda Miryam. Un’abitudine condivisa da tante persone. Tra il Carso e l’Istria in questo periodo si fa spesso colazione con il caffè o il tè accompagnati da una fetta di questa prelibatezza. Secondo la tradizione, la forma e la corposità della pinza rappresenterebbero la spugna imbevuta di aceto che i romani appoggiarono sulle labbra di Gesù durante la crocifissione. Grazie alla sua consistenza a Buie c’è invece l’abitudine di inzupparne una fetta nel vino, possibilmente rosso, la cosiddetta “sopa”. Un abbinamento che gli anziani consideravano, anzi considerano tutt’ora, una bontà.
Per saperne un po’ di più sulle usanze del Buiese abbiamo contattato la connazionale Zora Klarić, che prepara questa bontà da molto tempo. “Ho iniziato a impastare il pane assieme a mia mamma Giovanna quando avevo 10 anni, quella volta tutti dovevano aiutare nelle faccende domestiche o nei campi. Da bambini non vedevamo l’ora che arrivasse Pasqua per mangiare la pinza, invece del solito pane – ci racconta entusiasta –. Mi ricordo che la cucina doveva essere ben calda, mia mamma ci diceva di chiudere porte e finestre per non far uscire il calore. Avevamo il forno a legna, el ‘špaher’, che riscaldava l’ambiente, faceva molto più freddo e non c’erano i climatizzatori per regolare la temperatura”. La pinza è un dolce che necessita di tempo per essere preparato, deve lievitare bene e il calore è un ottimo alleato.

Dal suo impasto ben alzato a Buie si preparano anche altri dolci pasquali. “Quando ero piccola mia sorella ed io ricevevamo le colombe (simili alle titole triestine), mentre mio fratello ‘el taschin’, una specie di borsetta con all’interno un uovo sodo. Non so perché ai maschietti andasse un tipo di dolce, mentre alle femminucce un altro – spiega Zora -, però so che aspettavamo impazienti quella festività”. Con un chilo di farina la signora ci ha preparato tutti e tre i dolci, per farci capire meglio quale fosse la loro forma. Le colombe ad esempio sono molto diverse da quelle in commercio, consistono di una treccia, tagliuzzata in alcuni punti per dare l’effetto delle piume delle ali, alla cui estremità si posiziona un uovo rosso. “El taschin” invece ha la forma di una vera e propria pochette. “Guarda, è all’ultima moda, ci dovremmo scrivere sopra ‘Channel’ o ‘Gucci’!”, scherza Zora mentre osserva l’ultima lievitazione prima di spostare gli impasti nel forno.
Una merenda sotto gli olivi
“Questi tre dolci erano immancabili a Pasqua, mentre le uova di cioccolato erano un lusso, ce le portava una zia da Trieste e la sorpresa al suo interno ci sembrava un regalo magnifico. Il massimo era ricevere una collanina o una spilla che custodivamo con gelosia”, ricorda l’intervistata.
Il lunedì di Pasquetta per i più piccoli era una festa ancora più gioiosa di quella ufficiale della domenica. “Prendevamo un pezzo di pinza, le uova e magari qualche frutto e andavamo a fare merenda all’ombra degli olivi, lungo il pendio sotto via Garibaldi, dove abitavamo – ricorda -. Lì, assieme ad amici e a vicini, noi bimbi ci divertivamo giocando e correndo, mentre gli adulti chiacchieravano tra loro”. Un’usanza che con il tempo si è trasformata nella grigliata o nella gita fuori porta del Lunedì dell’Angelo a cui siamo abituati oggi. A sopravvivere nel tempo sono stati però anche i sapori di una volta, custoditi con cura e gelosia dalla massaie. “Preparare la pinza, sentirne il profumo, gli aromi e il suo sapore mi fa tornare all’ infanzia – ammette la signora -. Quando cucino ci metto sempre impegno e passione, scelgo gli ingredienti più genuini: i limoni del mio albero, le uova da persone di fiducia, anche per quanto riguarda la farina preferisco quella di qualità, specifica per i lievitati. Ho fatto e rifatto la pinza tante di quelle volte che ormai nell’impastarla percepisco se sia necessario aggiungere qualcosa. La ricetta è quella di mia mamma, ma siccome sono un’appassionata di cucina cerco in continuazione suggerimenti utili sui vari libri, ma anche su Internet”.

Oggi la stufa a legna ha lasciato il posto a forni più moderni e tecnologici, le planetarie aiutano ad amalgamare gli ingredienti più velocemente e con meno fatica, ma grazie all’amore per le proprie radici e per i sapori tradizionali le ricette dei nostri genitori e dei nostri nonni continuano a sopravvivere. Anzi, fanno molto di più, rivivono un periodo d’oro! “In varie occasioni mi sono accorta che le persone preferiscono i prodotti semplici e genuini, piuttosto che dolci elaborati con vari strati di crema. I gusti autentici, come quelli della pinza appunto, ma anche dei busolai o dello strudel, sono sempre più ricercati e apprezzati”: le parole di Zora sono quelle di una persona che se ne intende di ricette e che in diverse occasioni prepara interi vassoi da condividere in Comunità o con i membri dell’Associazione dei pensionati. Inoltre, prende parte alle gare culinarie, con ottimi risultati.
Creare con le proprie mani

Mentre la pinza, la colomba e “el taschin” stanno cuocendo nel forno, sprigionando il loro profumo, l’intervistata ci spiega il perché della sua passione per la gastronomia. “Amo cucinare perché creo qualcosa, do vita a un piatto fatto da me, indipendentemente da quello che preparo è una cosa mia ed è una grande soddisfazione – ammette -. Oggi ho molto più tempo a disposizione, quando lavoravo, tra la famiglia e i molti impegni non avevo molti momenti liberi per dedicarmi alla pasticceria. Ora mi capita di mettermi a impastare anche alla sera, magari con la TV accesa, poi lascio lievitare l’impasto per tutta la notte. Il caldo è un grande alleato, ho una vecchia copertina che tengo nella credenza e uso solo per coprire i lievitati”. Tra trucchi del mestiere ed esperienza non vengono meno le tradizioni, ed ecco che alla messa serale di Pasqua si va con un cesto al cui interno ci sono la pinza appena sfornata e le uova, pronte per essere benedette, nella speranza che la primavera porti con sé prosperità e abbondanza. Riti religiosi e contadini che si mescolano e si fondono assieme, unendo tradizione e modernità in un abbraccio che sa di calore. Lo stesso calore che si ritrova al pranzo della domenica, quando la famiglia si riunisce attorno al tavolo per gustarsi del buon cibo genuino, preparato da mani esperte. Inutile dire che il risultato è sorprendete, l’impasto soffice si scioglie in bocca, mentre il sapore della pinza regala una gioia nata dallo sprigionarsi dei vari ingredienti sul palato.

Un ringraziamento affettuoso va a Miryam e a Zora, sia per la disponibilità, sia per i loro ricordi, sia per aver condiviso con noi le loro pinze, piccole opere d’arte culinarie dal sapore inebriante.
Che sia la versione triestina o quella istriana, poco importa, la pinza rimane un punto fermo della Pasqua, in fondo la ricetta è più o meno la stessa. La cucina con i suoi piatti tipici fa parte della cultura e dell’identità di un territorio e l’Istria, abbellita dai suoi verdi colli ricoperti di vigneti e di olivi propone un’offerta gastronomica ormai conosciuta in tutto il mondo. Ma prima ancora del turismo di massa, prima dei ristoranti rinomati e delle guide gourmet, gli istriani hanno fatto della convivialità un’arte. Non importa quanto i tempi fossero duri, se arrivava un ospite lo si accoglieva a braccia aperte: c’era sempre un bicchiere di vino pronto, una fetta di pane da accompagnare con del prosciutto o delle luganighe. Oggi non è cambiato molto, quello spirito di accoglienza e di benvenuto resiste nel tempo, perché in queste terre si sa bene che la felicità passa anche dalla tavola, dalla condivisione e dallo stare assieme. Se poi si conclude un pasto con una pinza che sa di famiglia, di calore e di tradizione il buonumore non può di certo mancare. Non per niente un proverbio francese recita: “Il dolce non va allo stomaco, il dolce arriva dritto al cuore”.

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