Vetta dopo vetta Le conquiste delle donne

La fiumana Vedrana Simičević, alpinista e arrampicatrice sportiva, racconta la sua passione per le montagne

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Vetta dopo vetta Le conquiste delle donne

Esplorare il mondo con curiosità e avere il coraggio, la tenacia e la caparbietà di superare i propri limiti, ma soprattutto essere sé stessa e credere nelle proprie capacità. Sono questi un po’ i tratti salienti che contraddistinguono Vedrana Simičević, alpinista e amante del free climbing, ovvero l’arrampicata sportiva. La sportiva fiumana era balzata agli onori delle cronache quale membro della spedizione croata, tutta rigorosamente al femminile, che nel 2007 e quindi nel 2009, conquistò due delle cime più alte del mondo: prima il Cho Oyo, la sesta montagna più elevata del pianeta (8.201 metri) e quindi il Monte Everest, la vetta più alta in assoluto con i suoi 8.848 metri. Però, come dice lei stessa, ci sono state altre vette, molto più impegnative e pericolose, che non vengono nominate e che sono state conquistate dalla componente rosa dell’alpinismo nazionale. E grazie al Museo dell’alpinismo sloveno e alla collaborazione delle associazioni alpinistiche di Slovenia e Croazia, la componente femminile in questo sport ancora definito estremo verrà omaggiata con la mostra “Il coraggio è donna” (Korajža je ženskega spola – Hrabrost je ženskog spola), che verrà inaugurata domani (ore 19) negli ambienti dell’Archivio storico di Fiume.
La “scalata” di Vedrana Simičević in questo sport inizia in famiglia quando i genitori, ma soprattutto la mamma, l’accompagnava in lunghe passeggiate sulle montagne di “casa nostra”. Con il passare del tempo, appena adolescente, sognava di terminare il corso di alpinismo nell’appena formato Club alpino fiumano. “Ricordo che dovetti aspettare di compiere i 18 anni per poter accedere al corso. Questo era stato molto importante per la mia futura carriera di alpinista e arrampicatrice. Nei primi anni ‘90 del secolo scorso nasceva una nuova generazione di futuri alpinisti di cui feci parte. Poi con gli impegni universitari e, nel prosieguo, la professione di giornalista, il tempo iniziò a scarseggiare per dedicarmi con costanza a questa passione. Per un periodo accantonai i miei sogni in un cassetto, che riaprii nel 2004 ritornando a dedicarmi al ‘mio primo amore’”.
I primi 6mila metri
Con il rientro attivo nell’alpinismo, Vedrana accettò con coraggio e perseveranza la proposta di partecipare a una spedizione “in terre lontane” e precisamente sulla Cordigliera delle Ande in Perù. L’impresa prevedeva di salire su una parte delle vette oltre i 6mila metri. “Avevo a disposizione un anno per prepararmi e ritornare in forma fisica e psichica, poiché l’alpinismo non deve essere preso sotto gamba quando si tratta di altezze superiori ai duemila metri. Le difficoltà sono tante. L’altitudine è di per sé un fattore di rischio”.
Sopra i 5.000 metri, quasi tutti gli alpinisti accusano diversi disturbi: mal di testa, alle volte associato a vertigini, una sensazione di nausea e connessi conati di vomito, una condizione di debolezza seguita dal calo dell’appetito e dall’impossibilità ad addormentarsi a causa della fatica a respirare. Tutti sintomi che possono scomparire nel giro di qualche giorno. Gli stessi disturbi possono presentarsi anche a quote più basse, diciamo intorno ai 3.000 metri, più raramente intorno ai 2.500 metri. Ma a queste quote, di solito, essi sono connessi alla velocità con cui la vetta è stata raggiunta. Perciò scalate di questo tipo vengono fatte a tappe.
“I nostri allenamenti si svolgevano soprattutto sulle Alpi slovene, particolarmente adatte a questo tipo di preparazione. Comunque, nel 2005 partecipai a questa avventura con i miei colleghi. Eravamo inesperti per quanto riguarda questo tipo di scalate, ma ci mettemmo tanto impegno, entusiasmo e serietà seguendo alla lettera i consigli del nostro capogruppo Zehija Vikić. In quella spedizione ho scalato con successo quattro vette superiori ai cinquemila metri e poi, per motivi di lavoro, sono dovuta rientrare. È stato un mio successo personale”.
Team rosa, tanto scetticismo
L’alpinismo comprende vari tipi di arrampicata: libera, su ghiaccio, su roccia e così via. “Uno sport che ancora poco tempo addietro veniva considerato adatto soltanto per gli uomini, troppo duro, faticoso e pericoloso per le donne – continua Vedrana – e perciò lo scetticismo di una spedizione tutta al femminile sulle vette più alte del mondo era grande. Eppure siamo riuscite a raccogliere i mezzi finanziari necessari per intraprendere questa nostra prima grande avventura. Nel 2007 partimmo verso l’Himalaya per conquistare il Cho Oyo, una vetta di 8.201 metri. Eravamo un team composto da 19 alpiniste, con il capogruppo Darko Berljak. Seguendo tutto il processo di acclimatamento, senza bruciare le tappe, che a queste altezze possono avere conseguenze gravi, siamo salite fino all’ultimo campo base e qui ci siamo fermate a causa del maltempo. Grazie ai nostri contatti con i meteorologi sapemmo che il tempo stava volgendo al meglio e mentre numerosi alpinisti rinunciarono a proseguire la scalata, cinque di noi riuscimmo a raggiungere il traguardo. La sensazione era impagabile”.
L’Everest, così vicino, così lontano
La conquista del Cho Oyo ebbe una vasta eco e un po’ tutti iniziarono a chiedersi chi fossero queste “signore della montagna”. Il risultato fu che grazie ai numerosi sponsor e ai finanziamenti aggiuntivi nel 2009 un’altra spedizione rosa ritornò sull’Himalaya, questa volta per conquistare la meta più ambita di ogni alpinista, l’Everest. “È una spedizione particolare, differente dalla altre. Si tratta di un impresa molto costosa, soprattutto per quanto riguarda l’Himalaya dove si è sviluppato un turismo alpino definito ufficiosamente ‘turismo himalayano’. Ogni permesso viene pagato a parte. Basti dire che quello per il campo 1 viene a costare 10mila dollari a persona. In media una salita fino alla vetta dell’Everest dura anche tre settimane per consentire al corpo di acclimatarsi nei vari campi base. Non bisogna dimenticare le condizioni meteorologiche e quindi il tutto è molto, ma molto costoso. Purtroppo, la conquista dell’Everest è rimasto un sogno irrealizzato per la sottoscritta. Per disfunzione della maschera d’ossigeno ho dovuto desistere nell’ultima tappa della scalata”.

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