Un aiuto innovativo per i più sensibili

A colloquio con il prof. Luciano Pasqualotto dell’Università di Verona

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Un aiuto innovativo per i più sensibili

Ripristinare condizioni di vita normali per le persone ritenute fragili. È questo l’obiettivo di “recovery”, concetto che si sta sviluppando e diffondendo negli ultimi trent’anni e che ritroviamo puntualmente anche nei documenti ufficiali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un concetto che riassume in maniera efficace la necessità operativa di riconoscere al paziente la titolarità del suo percorso terapeutico-riabilitativo e la definizione di obiettivi legati a una migliore qualità di vita, per quanto ciò sia possibile. Il metodo è stato illustrato dal prof. Luciano Pasqualotto, dell’Università di Verona Dipartimento di Scienze Umane, nel corso di una recente conferenza a Fiume, svoltasi nell’ambito del progetto “Puzzle”, che aveva come tema la reintegrazione degli ex tossicodipendenti nel mondo del lavoro. Abbiamo interpellato il docente per capire meglio in che cosa consiste il concetto di “ricovery”.
“Ci sono tantissime persone ‘fragili’ che nel corso della loro vita hanno dovuto combattere, o che combattono ancora con problemi di dipendenza da droga, alcol, gioco d’azzardo, o lottano contro la povertà o le malattie mentali. Finora ci siamo concentrati soltanto sul problema e molto meno sul cosiddetto ‘recovery’, ovvero recupero. Si tratta di un aspetto molto innovativo dato che fin qua, tutti i servizi offerti a queste persone si basavano soltanto sul problema e non sulla soluzione del problema. Si ricorreva per lo più all’astinenza, il che a lungo andare non fruttava alcun risultato essendo in pratica sostituite le droghe illegali con quelle legali, ovvero con i farmaci. Nei casi di dipendenze varie, bisogna invece individuare il motivo che sta alla base del problema. È importante spostare l’attenzione dalla condizione clinica sulla prospettiva bio-psico-sociale, dove bio sta per salute, psico per come ci sentiamo dentro di noi e sociale per il nostro ruolo che spetta alla società. Un modo questo, che permette di osservare queste tre dimensioni allo stesso tempo”, ha spiegato Luciano Pasqualotto.
Ciò significa che la persona va aiutata non soltanto prescrivendole dei medicinali?
“Curare le dipendenze in termini di assuefazione non ha senso, in quanto si rischia di commettere un’azione limitata. Di conseguenza abbiamo tanti recidivi, divenuti tali perché si toglie loro una sostanza che fino a quel momento consumavano senza dargliene in cambio un’altra. Queste persone si ritrovano quindi a combattere da sole il loro problema. Negli ultimi anni sono stati fatti determinati e significativi passi avanti grazie ai quali siamo in grado di fornire misure non soltanto di tipo ‘bio’, ma anche psico-sociali”.
In che modo?
“Modificando le condizioni di lavoro per queste persone, che non devono essere dettate soltanto dai servizi specialistici bensì anche dalla comunità in generale. La loro riabilitazione dev’essere un impegno comune. L’obbiettivo è potenziare l’inclusione di queste persone nella società evitando ognie forma di discriminazione, che può soltanto alimentare le singole patologie e posticipare il momento della guarigione. La società dele dare il proprio supporto incondizionato, in particolar modo i genitori di queste categorie sensibili, che sapranno dare a queste persone i giusti suggerimenti. Anche i parenti devono partecipare al percorso di reintegrazione, per saper gestire al meglio la situazione”.
Quanto è importante il lavoro dei volontari in questo senso?
“Tantissimo. Persone comuni che hanno voglia di trascorrere il proprio tempo con queste persone in fase di riabilitazione, andando magari a pesca, passeggiando o semplicemente chiacchierando con loro nel momento in cui si sentono sole. Tutto ciò aiuta loro nel reinserimento nella società. Farle lavorare magari a delle fiere, naturalmente tenendole lontane dalla fonte del loro problema, alcol, denaro o altro. Si sentiranno utili e d’altra parte chi le ingaggia si sentirà meglio sapendo di aver fatto del bene”.
Lei, professore, insegna dunque alle ‘persone comuni’ come aiutare queste categorie nella loro reintegrazione?
“La definirei inclusione socio-riabilitativa. Ci sono laboratori strutturati apposta, ma anche occasioni d’incontri spontanei.
Dobbiamo mettere in moto tutte le risorse che spostano il ruolo dei professionisti, i quali spesso hanno timore a chiedere aiuto. D’altra parte, le persone comuni sono contente di poter essere utili. Orientare la cura e la riabilitazione verso la recovery significa relativizzare la guarigione clinica (basata sui sintomi) per accompagnare queste persone verso la via della guarigione e indicare loro il modo giusto per riguadagnare il controllo della propria vita. È una prospettiva indispensabile per tutte le condizioni di cronicità, ma anche per produrre un sistema di cura spostandolo da una configurazione che alimenta lo stigma e l’esclusione sociale e indirizzandolo verso un approccio inclusivo”.

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