Fiume, operazione mina: «Professionisti, non eroi»

Chiacchierata con l’artificiere Goran Hoppe, agente dell’Unità speciale e d’intervento della Questura litoraneo-montana, che ha coordinato il complicato intervento di domenica scorsa

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Fiume, operazione mina: «Professionisti, non eroi»
Foto: RONI BRMALJ

Anche il nostro vivere quotidiano comporta dei rischi di cui, qualche volta, non ci rendiamo nemmeno conto. Succede, ad esempio, quando ci si mette al volante e, soprattutto, se lo si fa con spavalderia, con sufficienza e infischiandosene dei possibili pericoli. C’è chi il rischio lo affronta per professione, ponendosi davanti a tutti noi che certi problemi non siamo in grado di risolverli.

“Non siamo abituati a tanta attenzione mediatica, a dover parlare davanti alle telecamere. Questo è semplicemente il nostro lavoro che svolgiamo abitualmente, senza tutto questo clamore. Operiamo lontano dagli occhi e dagli obiettivi, in silenzio”, ha esordito Goran Hoppe, agente dell’Unità speciale e d’intervento della Questura litoraneo-montana, uno dei membri del team che domenica scorsa ha partecipato all’operazione di rimozione, neutralizzazione e brillamento della mina dal bacino portuale fiumano. Hoppe – il quale si è prestato con grande disponibilità alle nostre domande e da cui abbiamo voluto apprendere la complessità di un intervento che ha contribuito a bloccare per un’intera giornata il centro cittadino – guida l’unità dei sub artificieri e nell’azione di domenica è stato il coordinatore di tutte le attività. Ne parleremo, naturalmente, ma non prima di avere soddisfatto la nostra curiosità. Partiamo dal finale, dal botto e dalla colonna d’acqua, che si è sollevata alle 13.15, quando il residuato della Seconda guerra mondiale è stato fatto saltare in aria. Le esplosioni, di solito, non sono di buon auspicio. In questo caso, è stata come una liberazione. “Sì – ha confermato Hoppe –, e la prima cosa che ci è venuta da fare dopo quell’attimo, è stato un abbraccio tra di noi, quando ci siamo resi conto che tutto era finito e che l’intera operazione si era conclusa nel migliore dei modi. Abiamo assistito alla scena dall’imbarcazione d’appoggio, a debita distanza. Dopo ore di concentrazione e altissima tensione, siamo rientrati nuovamente in una dimensione umana. Questa situazione che è venuta a crearsi è stata speciale, in particolare per il fatto che l’ordigno era stato rinvenuto in mezzo al porto, in pratica in centro città. In Croazia, dalla sua indipendenza, non c’è mai stata un’operazione di questa portata per il recupero di un residuato bellico”.

Un «mostro» nel bacino portuale
La mina, 1,1 tonnellate di peso, come una “Golf”, e 690 chili d’esplosivo ad alto potenziale, giaceva sul fondale da quasi ottant’anni e non è mai stata notata. Come ha dimostrato la potenza della deflagrazione avvenuta in mezzo al Quarnero, la carica esplosiva era ancora ben conservata. “Non è stata scoperta perché all’interno del porto c’è sempre stato molto traffico, che solleva e rimescola la sabbia e il fango sul fondale. La scoperta è avvenuta nel momento in cui venivano posati dei blocchi di cemento nell’ambito dei lavori alle infrastrutture del porto. Uno di questi è stato posato relativamente vicino alla mina, scoprendola. Era sepolta per un terzo circa. Questa l’hanno realizzata i tedeschi e, purtroppo, certi loro ordigni anche dopo tanti anni possono ancora essere efficaci per la loro funzione. Mi riferiscco sia agli ordigni in mare che sulla terraferma”. Le mine, anche quelle terrestri, sono concepite in primo luogo per distruggere il nemico, il potenziale umano e quello “tecnico”. Conclusi i conflitti, però, molti ordigni restano inesplosi. Ve ne sono anche di quelli disseminati in tempi relativamente recenti, nei primi anni Novanta, durante la guerra in Croazia. Recentemente due artificieri hanno perso la vita in Lika nel tentativo di disinnescarne uno. Ci vogliono doti notevoli per confrontarsi con certe situazioni e per farlo sott’acqua, in quello che non è l’ambiente naturale degli umani, ci vuole anche qualcosa in più. “Un artificiere subacqueo dev’essere in primo luogo un sub eccellente, già nelle fasi di ricognizione, per non sollevare il fango che può ridurre notevolmente la visibilità. Nel caso di questa mina, si trattava di una situazione di scarsissima visibilità perché si trovava in mezzo al porto”.

Ognuno di voi ha una famiglia, degli amici. Quando ci si trova lì, a contatto con un oggetto estremamente pericoloso, come si fa a scansare dalla mente altri pensieri, tutti quelli che non riguardano l’operazione in atto?
“È una cosa che ci viene chiesta con una certa frequenza. Così come voi avete scelto la vostra professione, anche noi abbiamo deciso di fare questo lavoro. Paura? Non c’è paura, bensì un’emozione positiva. Mi spiego meglio. Non vedevamo l’ora che partisse l’operazione perché eravamo più tesi prima, nell’attesa, nella fase di preparazione. Quando si è abilitati a questo mestiere, si agisce da professionisti, consapevoli del fatto che in precedenza sono state prese tutte le dovute misure per ridurre il rischio al minimo. In certi momenti, uno non ci pensa alle possibili conseguenze per un evento indesiderato”.

Una vera e propria impresa
Nel corso della chiacchierata si è aggregato a noi l’artificiere Ivan Jambor, della stessa Unità, che ha accudito e accompagnato il “mostro” fino alla sua ultima dimora: “La mina è stata vista per la prima volta il 14 giugno, in piena stagione turistica, per cui non si è agito subito. Nei mesi successivi sono stati stilati i piani, effettuate innumerevoli immersioni”.

Ivan Jambor e Goran Hoppe, artificieri.
Foto: LUCIO VIDOTTO

In tutta l’operazione c’è stato un momento particolarmente delicato?
Ha risposto Hoppe: “Il momento di maggiore rischio è indubbiamente costituito dal sollevamento dell’ordigno dal fondale e, successivamente, il suo brillamento. Nel corso dell’intera azione, dobbiamo ammetterlo, siamo stati accompagnati da condizioni meteo ideali. Ovviamente, anche la scelta dei tempi è stata legata alle previsioni. Una volta trainata la mina lì dove è stato valutato che non avrebbe potuto produrre danni, vi è stata applicata la carica esplosiva per la sua distruzione. Non vogliamo nemmeno immaginare che cosa sarebbe potuto succedere se la mina fosse esplosa nel porto”.
Sui vari social, da parte di autori quasi sempre anonimi o mascherati, comparivano nei giorni scorsi varie teorie complottiste, previsioni catastrofiche contrapposte a valutazioni grossolane, infondate. Come le osserva uno che s’impegna a risolvere un problema che non è soltanto il suo, ma di un’intera comunità? “C’è gente e gente. Tra questa, qualcuno s’arroga il diritto di parlare di cose di cui non ha alcuna nozione. A questo punto direi che è assolutamente inutile discuterne. Ne possiamo discutere noi, come ‘addetti ai lavori’ e che siamo pagati per svolgere questo lavoro. Semmai, posso ringraziare i cittadini di Fiume, che si sono resi conto della serietà della situazione e che hanno contribuito alla felice conclusione di una vicenda che, speriamo, non debba più ripetersi. D’altra parte, sappiamo di vivere in un’area che ha un passato in cui vi sono stati conflitti che si sono lasciati dietro di tutto. Questa è stata la prima volta in Croazia che si è dovuto procedere con delle modalità speciali, a partire dalla necessità di evacuare la popolazione. Di ordigni di questo tipo, comunque, ne abbiamo visti già e non è escluso che ne vedremo ancora”, ha spiegato ancora Hoppe, concludendo: “Non siamo abituati all’esposizione mediatica e ci troviamo un po’ a disagio nel dover rilasciare dichiarazioni o interviste. Non ci consideriamo degli eroi. Il nostro lavoro lo facciamo perché ci piace. Oggi tutti vogliono vederci, me e anche Ivan, che accompagnava l’ordigno sott’acqua mentre io ero in superficie. Per noi sono cose normali. Dietro, comunque, c’è una lunga e complessa formazione, dall’addestramento per i sub a quello per gli esplosivi, con tanto impegno e collaborazioni internazionali. Il nostro compito è quello di farci trovare pronti”.

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