In questa torrida estate, caratterizzata da notti tropicali e cieli stellatissimi, c’è tanta voglia di refrigerio. Quale rimedio migliore di un bel tuffo e di una piacevole nuotata in mare, magari confortati da un buon gelato o una bibita fresca e dissetante all’uscita. Ed è proprio l’immensa distesa blu, con i suoi segreti e le sue promesse, nel nostro caso quella inerente la fascinosa riviera abbaziana, ad essere la protagonista indiretta di questo appuntamento scritto. In tale contesto e sulla scia di quelli elaborati la scorsa estate relativi alle spiagge quarnerine maggiormente note, è il momento ideale per ritornare a parlarne. Delle fiumane abbiamo diffusamente raccontato e, quindi, riprendiamo il discorso dagli stabilimenti balneari abbaziani, tra i quali abbiamo già trattato l’Angiolina, ufficialmente aperto il 20 luglio 1884, a cui ben presto ne seguirono altri. A tale riguardo, è da rilevare che alla vigilia della Prima guerra mondiale, la Perla del Quarnero ne vantava altri cinque: lo Slatina, il Tomaševac, il Bagno comunale, il Bagno libero e il Quitta.
Un lido innovativo
Sito sul tratto costiero in direzione di Laurana, a differenza degli altri il Bagno Quitta fu costruito in cemento e mattoni, senza alcun elemento e/o struttura in legno, a forma di lettera “S” allungata, riportante la curva della baia. A seguito dei nuovi modelli culturali e sociali impostisi in quegli anni, nel 1904 l’imprenditore moravo Conrad Quitta, già proprietario di tre ville ad Abbazia, tra cui la palazzina che oggi ospita la Thalassotherapia, fece realizzare il progetto relativo al suddetto complesso. A detta di Mirjana Kos e Julija Lozzi Barković (ne “Il patrimonio balneare quarnerino”) lo stesso, ideato dall’architetto Natale Cleva, fu inizialmente concepito quale piccola struttura comprendente una ventina di cabine. Approvato il documento e ottenuti i permessi necessari, Quitta pensò di estenderlo ulteriormente e, nel 1906, ne fece progettare uno molto più grande chiamato Gemeindebad (Bagno comunale), il che suscitò la protesta dei residenti locali, convinti che avrebbe impedito l’accesso al mare dalla strada principale, lungo il ruscello Lerčica. Il caso finì per essere oggetto di esame giudiziario e, tre anni dopo, fu risolto a favore dell’imprenditore, al quale il Tribunale di Volosca concesse la costruzione prevista a condizione che il muro della spiaggia seguisse e rispettasse il bordo della scalinata relativa al summenzionato passaggio pubblico, che vi sia un ingresso ben definito e che nel tratto che interessava il lungomare sia coperto da una volta, ben mantenuto e lasciato libero alla circolazione. Così, nel 1910, con un nuovo progetto firmato da Sandor Neuhausler e Rudolf Pelda, Abbazia si avvalse del suo primo stabilimento balneare in cemento, dai prezzi modici e decisamente più accettabili rispetto a quelli dei bagni Angiolina e Slatina, dovuti anche all’acqua molto più fredda a causa del confluire del Lerčice. In tale contesto, sin da subito si profilò quale meta della classe più umile e meno colta, in nessun modo delle genti benestanti e raffinate, tra cui la maggior parte visitatori stranieri, abituati ad altre acque e altri modi. Nell’ambito dello stabilimento furono aperte anche alcune strutture commerciali e ristorative, tra le quali il noto Caffè Arcade, con cui lo stesso in seguito divenne noto. In epoca italiana, quando venne nuovamente ampliato nella parte nord-orientale, assunse il nome di Bagno Italia e successivamente, in quella jugoslava, gestito dall’azienda “Parkovi i plaže”, divenne Opatija.
L’arrivo degli stranieri
Con l’arrivo degli ospiti stranieri ad Abbazia, dicevamo, e allo sviluppo della sempre più organizzata balneazione tradotta in strutture ottimamente attrezzate e vantanti servizi e arredi d’eccellenza, si stabilirono altri modelli culturali di comportamento. Dallo scritto di Kos e Lozzi Barković veniamo a sapere che i nuovi villeggianti, i cui atteggiamenti venivano dettati da ben precise norme civili, erano molto contegnosi e schizzinosi nella condivisione dello spazio che si ritagliavano nei lidi, come pure castigati nei costumi. I modi di fare dei locali, abituati alla libertà del calarsi in mare sempre e ovunque in biancheria intima o completamente denudati, al mescolarsi di uomini e donne, al nuotare sconfinato e ai tuffi rumorosi da rocce, barche, rive e altro, agli schiamazzi diurni e notturni e ai giochi in spiaggia, inizialmente furono ritenuti pittoreschi e folcloristicamente simpatici e interessanti, ma rozzi e plebei. Infatti, dopo i primi momenti di curiosità, gli stessi cominciarono a venir osservati con sdegno e contestati, tantoché le autorità emanarono dei comunicati con la violazione di balneazione all’infuori degli stabilimenti pubblici o privati, il che non di rado non venne rispettato, cosicché non mancarono le multe.
L’architettura
Come accennato, la concezione architettonica del complesso Quitta si dimostrò ingegnosa e intuitiva. La dematerializzazione della massa e delle dimensioni si ottennero con il perspicace impiego della succitata soluzione a forma di “S” rincorrente la configurazione della costa e con l’innalzamento della facciata o corpo centrale composto da colonnati atti a dinamicizzarlo. Inoltre, gli stessi vennero utilizzati anche nell’edificazione del corridoio di passaggio esterno al lungomare, nel punto in cui si sistemarono i vari localini e negozi. A detta delle due autrici, il tetto piatto era circondato da una recinzione in ferro battuto che delimitava lo spiazzo in cui prendere il sole, che da lontano ricordava una ghirlanda di pizzo.
Nel periodo tra i due conflitti mondiali, il Quitta fu completamente adibito a ristoranti ed esercizi commerciali, nonché, a seguito della Seconda guerra mondiale, a discoteche e locali notturni. Fino al 1980 il suo aspetto esterno rimase sostanzialmente uguale, dopodiché venne abbattuto per lasciare spazio alla costruzione dell’albergo “Admiral” e dell’adiacente porticciolo turistico.
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