Abdon Pamich: «Fiume mon amour»

«Ricordo tutto della mia infanzia: gli anni dell’asilo, quelli della scuola in piazza Cambieri, le scuole medie durante la guerra, i bombardamenti»

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Abdon Pamich: «Fiume mon amour»

Tokyo, 18 ottobre 1964, Giochi olimpici. Sulle strade della capitale nipponica si stanno disputando i 50 chilometri di marcia. La giornata è grigia e fredda, con la pioggia e il vento che non danno un attimo di tregua agli atleti. Tra loro c’è anche il fiumano Abdon Pamich. Dopo una quindicina di chilometri inizia la corsa a due con l’inglese Vincent Nihill. Al chilometro 35 una crisi intestinale lo costringe a fermarsi per “liberarsi”, ma lì inizia una clamorosa rimonta. Dopo una manciata di chilometri Abdon riprende il suo avversario e nel finale lo stacca definitivamente vincendo un oro che lo ripaga di tutti i sacrifici fatti nella sua vita lanciandolo di diritto nel gotha dell’atletica italiana e mondiale. Di quella gara forse l’immagine più emblematica è il momento in cui afferra il filo del traguardo e lo spezza con rabbia, quasi come fosse il rigetto di qualsiasi linea di confine. Un confine labile, come quello della sua Fiume nella quale nacque il 3 ottobre 1933. Un crocevia di culture e di lingue dove l’italiano, il croato, il tedesco e l’ungherese s’intrecciano formando un legame inscindibile. Ma su Fiume i venti di guerra soffiano sempre più impetuosi. Una guerra che alla fine si materializza sotto forma di razionamenti, bombardamenti e corse nei rifugi antiaerei. Ma il peggio deve ancora arrivare. Nell’immediato dopoguerra rastrellamenti ed esecuzioni si susseguono come le ore d’orologio. È il 1947 e la famiglia Pamich capisce di non essere più gradita nella propria città che ora si chiama Rijeka. Come tante altre, optano per l’esilio. Il 23 settembre di quell’anno Abdon affronta, inconsapevolmente, la prima marcia della sua vita: una rocambolesca fuga che da Trieste lo porterà, attraverso Udine e Novara, a Genova dove finalmente la famiglia si ricongiunge per ricominciare da zero una nuova vita.
Abdon, da quel straordinario successo sono trascorsi esattamente 55 anni. Che cosa ricordi di quella giornata?
“Ricordo che faceva freddo. Io però mi sentivo molto bene, soprattutto mentalmente. Ero libero di testa, senza condizionamenti, non avevo paura di perdere. Ero tranquillo e sereno. Poi la gara è andata alla grande, a parte quel piccolo incidente di percorso…”.
Ecco appunto, lì cos’era successo? Qual era stata la causa di quell’intestino “ribelle”?
“Le bevande distribuite agli atleti si erano raffreddate a causa delle basse temperature. Il mio stomaco era vuoto perché dopo metà gara avevo già digerito ed evidentemente quel liquido freddo si era infilato direttamente nell’intestino e ha fatto quello che non avrebbe dovuto fare”.

Abdon Pamich alle Olimpiadi di Tokyo del 1964

E quindi?
“Lungo il percorso non c’erano cespugli dove potermi nascondere, ma solo tantissimi militari che avevano il compito di garantire che nessuno invadesse la strada. Quindi mi sono messo sul ciglio della strada, con due soldati che cercavano di coprirmi. Ma quando sei disperato non pensi tanto alla privacy…”.
A Tokyo è arrivato il riscatto dopo il quarto posto di Melbourne 1956 e il bronzo a Roma 1960, che però aveva suscitato qualche polemica e tu stesso in un’intervista dicesti che “mi misero in condizioni di gareggiare male”. Che cos’era successo?
“Poco prima la Federazione mi aveva fermato per più di un mese e non ho mai capito il perché. Chiaramente stando fermo avevo perso la forma migliore e la gara era stata tutta in sofferenza. Malgrado tutto, dopo i 30 chilometri mi sono un po’ ripreso riuscendo a rimontare, ma i due là davanti erano ormai troppo lontani”.
Lasciamo la marcia e veniamo alle tue origini. Sei nato e cresciuto a Fiume: che ricordi hai della tua infanzia?
“Ricordo tutto: gli anni dell’asilo, quelli della scuola in piazza Cambieri, le scuole medie durante la guerra, i bombardamenti. E poi gli incontri di pugilato a Teatro Fenice che andavamo a seguire perché mio zio era arbitro di boxe”.
Com’era Fiume all’epoca?
“Era una città molto tranquilla, spensierata, allegra. Ed era veramente cosmopolita, tant’è che tra i miei compagni di scuola c’era chi parlava il croato, chi l’italiano, altri l’ungherese con la madre e il tedesco col padre o viceversa. Però la vera lingua di tutti era il dialetto fiumano”.
Il 23 settembre 1947 hai lasciato Fiume. Com’era andato il viaggio?
“Era stato il primo o il secondo giorno di scuola. Era una bellissima giornata di sole e al pomeriggio io e mio fratello eravamo andati al mare. Alle 2 di notte abbiamo preso il treno per San Pietro del Carso (Pivka, Slovenia, nda) dove eravamo in attesa di quello che ci avrebbe portati poi a Trieste. Quest’ultimo era diviso in due tronconi: uno era diretto, appunto, a Trieste e l’altro a Fiume. Per sbaglio abbiamo preso quello per Fiume e quindi siamo scesi alla fermata successiva facendo di corsa cinque chilometri sul binario nella speranza, vana, di raggiungere il treno per Trieste. Abbiamo dovuto quindi attendere altre 5/6 ore per prendere quello successivo. Finalmente, alle 22, dopo 20 ore di viaggio, siamo giunti a Trieste. Quindi abbiamo proseguito per Udine dove c’era un campo di trasferimento e da qui ci hanno destinato al campo profughi di Novara”.
La vita nel campo?
“Vivevamo in una caserma che portava ancora i segni dei bombardamenti. Quando pioveva nella nostra stanza entrava l’acqua, non c’erano finestre, non c’erano né il riscaldamento né l’acqua calda, mangiavamo soltanto riso e lenticchie. Io e mio fratello abbiamo però fatto molte amicizie e siccome eravamo giovani, era più facile affrontare questa situazione. Siamo rimasti lì per più di un anno, poi nostro padre aveva trovato un lavoro a Genova e così ci siamo trasferiti”.
Oggi il dramma dell’esodo giuliano-dalmata non è più un tabù e c’è la volontà di far luce, anche se la questione viene ancora troppo spesso strumentalizzata dalla politica. Perché?
“C’è tanta ignoranza, molti tendono a negare la storia e anche la politica di Tito aveva cercato di cancellarla. A cacciarci era stato il comunismo e la conseguente mancanza di libertà. Siamo stati sotto gli austriaci, sotto Napoleone, sotto gli ungheresi e mai nessuno aveva pensato di andarsene da Fiume. E probabilmente se fossimo capitati sotto la prima Jugoslavia, uno Stato abbastanza libero, non ce ne saremmo andati”.
Tu giri spesso nelle scuole per portare la tua testimonianza ai ragazzi. Che cosa gli racconti?
“Cerco di trasmettere un messaggio di apertura e di tolleranza. Spiego loro che noi gente di frontiera abbiamo due o tre anime e che quindi bisogna mantenere viva quest’origine mista. A casa i fiumani parlavano lingue diverse, ma erano tutti accomunati da una stessa cultura. Una cultura che dobbiamo conservare perché se la perdiamo, perdiamo le nostre radici”.

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