Beirut. Una tragica scintilla

Sono passati quattro anni dall'esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato d'ammonio all'interno del magazzino 12 nel porto di Beirut, in Libano. Una deflagrazione terribile, dopo la quale nulla è stato più lo stesso e che ancora oggi rimane senza risposte

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Beirut. Una tragica scintilla
La zona di Beirut dopo l'esplosione. Foto Shutterstock

Beirut, la capitale del Libano, è una delle città più antiche del mondo, un luogo dove la secolare storia s’intreccia con una cultura vibrante e un paesaggio urbano affascinante. Situata lungo la costa fenicia del Mediterraneo, Beirut è da sempre un crocevia tra Oriente e Occidente, una caratteristica che si riflette nella sua architettura, ma anche nella cucina e nella popolazione, influenzate da molteplici civiltà che vi hanno lasciato il segno. E poi la sua natura unica, con le montagne innevate osservanti le spiagge dove la gente fa il bagno nel mare, con i secolari cedri, simbolo della nazione (presenti anche nella bandiera libanese) e patrimonio dell’UNESCO. Beirut avrebbe tutte le carte in regola per poter offrire una vita che si limita all’alternarsi tra la frenesia cittadina e la tranquillità della natura. Per fuggire dallo stress che ogni grande città ti serve (con l’agglomerato urbano arriva quasi a toccare i 2,4 milioni di abitanti): si potrebbe fare trekking lungo la costa, ammirando gli iconici scogli di Pigeons’ Rock nel quartiere di Raouché, oppure dopo un’intensa giornata di lavoro, rifugiarsi in uno dei ristoranti locali per gustare le prelibatezze della vasta offerta culinaria locale.

Brutte cicatrici
Tuttavia, Beirut negli anni ha dovuto sopportare il dolore di varie ferite (alcune diventate poi brutte cicatrici) e varie, pesanti ancore che continuano a tirarla verso il fondo senza darle la possibilità di riemergere, di rimettersi in piedi e iniziare una risalita basata su un vivere tranquillo e pacifico.
Una città aggressiva, ma anche adorabile secondo molti, dai forti contrasti e dalle molteplici sfide legate alla convivenza di diverse etnie, culture e orientamenti politici, che nella sua storia recente è stata segnata dalla massiccia immigrazione palestinese nella metà del secolo scorso (che ha alterato gli equilibri tra i gruppi etnici residenti, come i Cristiani Maroniti, Sunniti, Sciiti e i Drusi), dalla perdurante e devastante guerra civile tra il 1975 e il 1990, da vari attentati politici e conflitti dovuti alle differenti cosmovisioni del popolo che abita il Libano.

Un errore umano
Arriviamo poi all’estate 2020: la mattina del 4 agosto. Nessuno si sarebbe aspettato che, in un contesto di crisi economica, politica e umanitaria (a causa della crisi siriana che dura dal 2011) potesse accadere una tragedia come l’esplosione del magazzino situato nel porto, nel centro della capitale.
Chi segue in modo superficiale le notizie provenienti dal Medio Oriente, avrebbe affermato in maniera altrettanto superficiale che si trattava di una delle solite esplosioni terroristiche ormai caratteristiche in tutta la regione, da sempre soggetta a instabilità e al timore che dietro l’angolo ci sia sempre qualcosa di brutto.
Invece a Beirut, che come il resto del Libano deve affrontare le restrizioni governative a causa della pandemia di Covid-19, in quel momento all’apice dei contagi, compare la distruzione in persona, che sembra non essere frutto del terrorismo, ma – seppure le vere cause non siano state ancora del tutto accertate – provocata dal fattore (errore) umano.

Come un fungo atomico
Il luccichio stroboscopico iniziale, avvenuto poco dopo le ore 18, accompagnato da una polvere bianca e luci che sembravano fuochi d’artificio, ha fatto da preludio a una piccola esplosione sferica, che gli esperti dopo le analisi indicarono proveniente da un singolo punto nel magazzino 12. Dalle ricostruzioni basate sulle immagini di pochi secondi prima dell’esplosione, il fumo non fuoriusciva dalle finestre, suggerendo che fossero chiuse. Tale isolamento aveva creato un hotspot dove la temperatura ha raggiunto il punto di combustione del nitrato di ammonio, che si trovava immagazzinato in sacchi ammassati in malo modo uno sull’altro. Successivamente si è verificata l’esplosione più potente, provocando un fungo simile a quello atomico, salito velocemente in alto, per poi allargarsi radialmente, causando onde d’urto talmente potenti da essere avvertite perfino a Cipro e in Israele a più di 200 chilometri di distanza.

Terrore e confusione
La zona colpita è cruciale, non soltanto per la città, ma per l’intero Paese. Proprio nei silos lì a fianco vi erano custodite le riserve di grano per l’intero Paese, ma anche altre enormi quantità di alimenti, medicinali e beni di consumo che sono letteralmente spariti in un batter d’occhio.
La zona del porto, animata da alberghi, bar e ristoranti, rappresenta una parte vitale della città. Il magazzino dove è avvenuta l’esplosione, situato in riva al mare, è stato completamente distrutto, lasciando un cratere che è stato successivamente allagato dal mare. Sono stati momenti di grande incertezza: inizialmente si pensava a un terremoto, poi a un attentato. Gli abitanti, purtroppo abituati al terrorismo, hanno vissuto momenti di terrore e confusione.

Un… campo minato
Negli anni successivi all’esplosione nel porto di Beirut, un’inchiesta dai risvolti indecifrabili: chi è il maggior responsabile dell’accaduto? Il porto di Beirut, a distanza di anni, ha l’aspetto di una zona di guerra. L’area è sotto controllo militare e i civili non possono entrarvi. Le famiglie delle vittime si collocano ancora oggi ai bordi della vicina autostrada per piangere i propri cari scomparsi in quei fatidici secondi. I ritratti e le foto a terra persistono nel tempo, mantenendo vivo il dolore e il ricordo. La giustizia, in questo caso, tarda ad arrivare. Sembra che chi si trovava nei pressi del magazzino numero 12 non avesse idea del pericolo che stava correndo, stando vicino a una merce altamente esplosiva, per di più immagazzinata in modo inadeguato. Nessuno li aveva mai avvisati del pericolo, nessuno li aveva messi in guardia. Era come se ogni giorno andassero a raccogliere la verdura in un campo minato, senza saperlo.

Il parere dell’esperto
Ne abbiamo parlato con Orjen Petković, dottore di ricerca in chimica analitica ambientale, docente presso la Scuola media superiore italiana di Fiume e collaboratore universitario, il quale ci ha spiegato in modo circostanziato le possibili cause. “La sostanza nitrato d’ammonio (formula chimica NH₄NO₃) è una sostanza fortemente esplosiva – ha esordito – che si utilizza nella produzione di esplosivi, nella produzione di combustibili per missili, come propellente in varie applicazioni militari ma, cosa curiosa, è anche uno dei migliori concimi artificiali in agricoltura, poiché contiene l’azoto sia in forma amminica (ammoniaca) che in forma di nitrato. Essendo molto utilizzato in agricoltura, il nitrato d’ammonio è una merce in continuo trasporto. Quando viene trasportato via nave, viene trattato come sostanza esplosiva”.

Essendo tale, è soggetto a misure di sicurezza durante il trasporto e l’immagazzinamento?
“Così dovrebbe essere. Le leggi europee, infatti, proibiscono di trattare questa sostanza se è in forma pura. Possono essere trattate soltanto miscele contenenti meno del 28% di nitrato d’ammonio. Il resto serve per stabilizzare il nitrato d’ammonio, cercando di evitare, appunto, catastrofi come quella di Beirut. Oggigiorno è poco probabile che si verifichi un trasporto di questo genere e che il carico, se immagazzinato in modo improprio, venga lasciato così per un periodo prolungato. È difficile che una cosa simile si verifichi nell’Unione europea, dove esistono restrizioni e gli Stati membri stanno ben attenti a non violarle. Casi di questo genere portano alla necessità di un controllo multiplo del trasporto di merci via mare. Non stiamo parlando di due tonnellate, di un camion o di un vagone del treno, ma di migliaia di tonnellate di sostanze che possono essere esplosive come il nitrato d’ammonio, ma anche inquinanti come il petrolio, velenose come le sostanze trasportate dalle navi chimiche. Il controllo deve essere ai massimi livelli”.

Sembra che a Beirut il nitrato d’ammonio sia rimasto per sette lunghi anni nel porto cittadino, praticamente abbandonato in sacchi in un magazzino generale, non adatto allo stoccaggio di sostanze esplosive.
“Di solito, le sostanze esplosive vengono trattate e spostate secondo regole particolari, e non in quantità di questo genere. Quando anche in Croazia venivano trasportati carichi esplosivi, una quarantina d’anni fa, c’era il porto di Ploče (Porto Tolero), una parte del quale era un po’ più isolata ed era dedicata a operazioni portuali pericolose, ossia alla manipolazione di sostanze esplosive di produzione jugoslava, proprio per evitare che potesse accadere qualcosa di simile”.

Il professor Orjen Petković, dottore di ricerca inchimica analitica ambientale.
Foto: ŽELJKO JERNEIĆ

Le cause, quindi, potrebbero essere diverse?
“L’esplosione di Beirut è accaduta per caso. Il nitrato d’ammonio è una sostanza cristallina e polverosa, e quando viene in contatto con qualcosa di caldissimo, come può essere una scintilla, parte la sua decomposizione che è talmente deflagrante, veloce, istantanea e autopropagante. In pratica, nell’arco di un paio di secondi, il nitrato d’ammonio si trasforma in gas caldo che cerca di spostarsi velocemente. Questa è appunto la definizione per antonomasia di un’esplosione”.

Se fosse accaduto a Fiume…
Nella malaugurata ipotesi che qualcosa del genere fosse accaduto, ad esempio, in Porto Baross, a Fiume, quali sarebbero state le conseguenze per la città?
“Avrebbe raso al suolo l’intero centro cittadino e quello che sarebbe rimasto sono gli edifici fatti dopo gli anni ‘60 del secolo scorso. Qui mi riferisco soltanto a quelli in calcestruzzo armato, non parlo nemmeno dei vetri e dei pezzi in legno che sarebbero andati completamente distrutti”.
Fonti ufficiali diedero all’epoca un bilancio di circa 200 morti e più di 7.000 feriti. Poi il numero delle vittime dell’esplosione salì a 250. Potrebbe suonare strano, ma non sembra un numero troppo grande se consideriamo che un’esplosione così forte sia avvenuta in un centro cittadino.
“Esprimendo un parere sul numero dei morti, quello ufficiale è grande, ma considerando la potenza dell’esplosione la cosa poteva finire in modo molto più tragico. Chi se ne intende l’ha paragonata a quella di una bomba nucleare. Per un’esplosione di questo genere, soprattutto in un centro densamente popolato come quello di Beirut, il numero delle vittime non è enorme, se le fonti dell’epoca sono affidabili”.

Le mille ipotesi
Tante teorie, ricostruzioni e domande aperte, alle quali non è stata ancora data una risposta. Si sono fatti avanti attivisti, molti esperti sia locali, sia libanesi, esperti in architettura forense, che hanno analizzato migliaia di foto, video e file per ricostruire i fatti avvenuti nel magazzino 12. È vero che il nitrato d’ammonio sia arrivato in Libano in modo illegale tramite una nave che si sapeva sarebbe stata bloccata e che conteneva questo carico? La domanda che sorge spontanea è: a che cosa sarebbe dovuto servire e come sarebbe stato usato questo nitrato d’ammonio? Inchiesta su inchiesta, per capire anche chi sia stato il vero proprietario del nitrato d’ammonio. Sembra ci siano in ballo alcune compagnie fittizie che tendono a nascondere i veri colpevoli. Tutto parte da una nave russa, la MV Rhosus, che salpa con il carico dalla Georgia (porto di Batumi) e bloccata in Libano, perché le autorità portuali le impedivano la circolazione. Alcuni indizi indicano che dietro a tutto ci siano dei miliardari siriani (George Haswani e i fratelli Imad e Mudalal Khuri) sanzionati in passato dagli Stati Uniti e strettamente collegati con la Russia, avendone anche il passaporto (l’equipaggio della nave che ha portato il carico in Libano era composto da ucraini e russi). In quel periodo, quando la nave venne fermata a Beirut nel 2013, in Siria, Paese che praticamente accerchia tutto il piccolo Stato libanese, c’era la guerra. E in Siria le bombe venivano prodotte proprio con il “fertilizzante” nitrato d’ammonio (dai 20 ai 40 chili in ognuna) per buttarle sui ribelli. Tanti fatti che potrebbero venir collegati.

Sfortunata coincidenza?
Le ipotesi non complottistiche, basate più sulle possibilità di una sfortunata coincidenza, sono state tre le analisi più dettagliate a pochi mesi dall’accaduto: il report dell’FBI, quello di un team forense francese e quello dei servizi di sicurezza interna libanesi. Poiché questi rapporti erano segreti, l’accesso diretto è stato impossibile, ma i giornalisti sono riusciti comunque a ottenere i dati dell’FBI e della sicurezza libanese. Entrambi i rapporti attribuivano la colpa a lavori di saldatura effettuati da operai siriani, chiaramente ignari del pericolo rappresentato dalla presenza vicino alla porta numero 9 del magazzino 12.Un’altra ricostruzione fatta dagli ingegneri forensi del Kindling Safety, ha invece identificato la radice del riscaldamento causato dal fuoco tra le porte numero 5 e 6. Proprio in quell’area, sembra che fossero custoditi pneumatici e nelle vicinanze del materiale pirotecnico. Invece di addossare la colpa ai saldatori immigrati e alla loro presunta negligenza dovuta a incompetenza, il Governo sarebbe costretto a spiegare perché nitrato di ammonio, pneumatici (facilmente combustibili) e materiale pirotecnico erano depositati nello stesso magazzino. Questo avrebbe richiesto una risposta più dettagliata, soprattutto considerando che negli anni il Governo aveva ricevuto numerosi avvisi da parte di società di sicurezza sul lavoro e professionisti competenti riguardo al fatto che il magazzino 12 fosse una… polveriera.

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