«Non è detto che in estate il virus diventi meno aggressivo»

Sul Covid-19 abbiamo interpellato Giorgio Palù, professore emerito all’Università di Padova, nonché docente alla Temple University di Philadelphia, uno dei virologi più autorevoli e apprezzati non soltanto in Italia, ma anche nel mondo

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«Non è detto che in estate il virus diventi meno aggressivo»

Da ormai tre mesi non parliamo praticamente d’altro: coronavirus, Covid-19 o SARS-CoV-2. Fate un po’ voi. Sono molte le caratteristiche del patogeno che abbiamo imparato a conoscere, ma ancora di più le domande che restano aperte e che troveranno una risposta soltanto a emergenza esaurita. Ogni giorno virologi, epidemiologi, ricercatori e l’intera comunità scientifica scoprono qualcosa di nuovo, piccoli ma fondamentali passi sulla strada che porta allo sviluppo di farmaci e del tanto osannato vaccino. Al momento però, l’unica certezza è che il nemico invisibile ha messo in ginocchio il mondo intero stravolgendo la nostra esistenza.
In quest’oceano d’incertezza e di punti ancora all’oscuro, abbiamo interpellato Giorgio Palù, professore emerito all’Università di Padova, nonché docente alla Temple University di Philadelphia, uno dei virologi più autorevoli e apprezzati non soltanto in Italia, ma anche a livello internazionale.
Professore, con l’arrivo della bella stagione si fanno sempre più insistenti le voci di una progressiva perdita di virulenza da parte del virus. È davvero così?
“No, su questo non abbiamo alcuna certezza. Solitamente d’estate gli altri coronavirus e i virus influenzali si diffondono molto meno. Se perdono o no virulenza lo sapremo quando avremo nuove sequenze oppure nel momento in cui saremo in grado di valutare se effettivamente i virus che isoleremo tra due o tre mesi replicano meno in coltura o in modelli animali rispetto agli attuali. La virulenza si misura con la capacità di crescita e con la capacità di far malattia. Che d’estate i virus si diffondano meno è chiaro per analogia, ma per quanto riguarda il Covid ancora non lo sappiamo. La temperatura, l’irradiazione solare, l’essiccamento dell’atmosfera e la diminuzione del tasso di umidità sono tutti fattori che non favoriscono la diffusione dei virus respiratori”.
Viceversa, in autunno tutti danno per scontata una seconda ondata…
“Anche in questo caso non lo sappiamo, ma è sempre stato così nelle pandemie. I coronavirus del raffreddore ritornano nel periodo autunnale e invernale”.
Vediamo di fare chiarezza su un aspetto alquanto dibattuto: il virus circola nell’aria sì o no?
“Il virus non è liberamente fluttuante in aria. I virus sono la forma vivente più diffusa sul pianeta e infettano cellule animali, vegetali, infettano i batteri, i parassiti e addirittura possono infettare sé stessi. Ma i virus non hanno vita libera come i batteri, i funghi, i protozoi o i parassiti: hanno per forza bisogno di una cellula. In aria si possono trovare soltanto occasionalmente e per un brevissimo tempo quando fuoriescono da una cellula sotto forma di goccioline che noi espelliamo con l’espirazione, parlando a voce alta, con lo starnuto o con i colpi di tosse. Alcuni studi in laboratorio hanno dimostrato che se spruzziamo del virus purificato in una camera ‘protetta’, lì può avere un’emivita di circa un’ora. Nell’aria i virus e il 90 p.c. di ciò che emettiamo in queste grosse goccioline, dal diametro superiore ai 5 micron, di solito non viaggiano per più di un metro e cadono per terra. Può tuttavia succedere che con un forte colpo di tosse, se la temperatura all’esterno è fredda, queste goccioline si condensino in goccioline più piccole, anche al di sotto del micron, chiamate aerosol. Queste possono viaggiare nell’aria per un massimo di 5-6 metri e poi cadono a terra”.
Una volta cadute per terra per quanto tempo possono sopravvivere?
“Gli studi condotti misurando l’infettività facendo prelievi su determinate superfici, hanno dimostrato che sul rame l’emivita, ossia il dimezzamento del titolo infettante, è meno di un’ora, sulla plastica intorno alle quattro ore e sull’acciaio cinque ore, che sembra essere la superficie che lo mantenga di più. Va detto come ciò venga fatto in condizioni con un’alta concentrazione di virus, mentre in natura questo non si verifica quasi mai. Una regola in microbiologia dice che più è bassa la dose infettante e meno il soggetto avrà la probabilità d’infettarsi. Questi esperimenti sono stati effettuati non misurando la presenza dei geni del virus, ma misurando il titolo infettante con cellule sensibili. Però sono fatti in condizioni che garantiscono la sopravvivenza del virus e soprattutto con virus ad altissimo titolo che, ripeto, quasi mai ritroviamo in natura”.
La stagione balneare è ai nastri di partenza e una delle questioni più ricorrenti è il comportamento del virus in mare.
“Nell’acqua salata vive pochissimo. Semmai il rischio d’infezione è molto più alto in una piscina chiusa dove c’è un elevato tasso di umidità”.
Come si comporta il virus nel nostro organismo? O meglio, attacca soltanto i polmoni e l’apparato respiratorio o anche altri organi?
“Se nei primi giorni riusciamo a bloccarlo, questo non si diffonde, ma se invece non riusciamo a eliminarlo dalle prime vie respiratorie, può finire in profondità nei polmoni, da dove può in seguito passare nei vasi sanguigni e raggiungere altri organi e quindi diventare più pericoloso. Abbiamo capito che il problema non è soltanto l’infiammazione negli alveoli polmonari, ma quello che sta dietro, ovvero il sangue che scorre. Se questo è coagulato, non c’è più lo scambio aereo dell’ossigeno che viene trasportato dai globuli rossi ed è proprio questo il vero problema”.
Il Covid è in grado di uccidere una persona che non ha patologie pregresse?
“È successo. Dipende tutto dal virus e dall’ospite. Se un virus ha la tendenza a replicare meglio e se l’ospite è sì sano, ma magari non possiede risposte immunitarie molto attive, allora può causare danni molto seri”.
Ci sono casi di persone che rimangono positive per 50-60 giorni, se non addirittura di più. Com’è possibile? Ma soprattutto, queste persone sono ancora infettive o no?
“Nei soggetti che non lo eliminano subito è possibile che il virus instauri una forma subclinica. È il sistema immunitario che ci difende, ma ci può difendere fino a un certo punto, poi però prevale il meccanismo di replicazione ed ecco che può succedere che riparta l’infezione e uno può essere anche infettivo”.
Chi guarisce sviluppa gli anticorpi?
“Una decina di studi hanno dimostrato che gli anticorpi misurati nel siero contro la proteina S, che è la proteina di superficie, sono in larga misura anticorpi neutralizzanti e quindi in grado di proteggerci in quanto bloccano tale proteina non consentendo al virus di infettare. Ad ogni modo non sappiamo ancora qual è la concentrazione di anticorpi che ci proteggono”.
Ciò significa che ad oggi non sappiamo ancora per quanto tempo uno possa rimanere immune?
“Sappiamo che tutti i soggetti che guariscono producono anticorpi. C’è anche uno studio cinese di una settimana fa pubblicato sulla rivista Science al riguardo. Ma che l’immunità contro i coronavirus e i virus respiratori esista, lo sappiamo già dagli studi degli anni ‘80 e ‘90 quando i volontari si facevano reinoculare il virus e dopo aver prodotto gli anticorpi erano protetti. Questo si è visto anche con la SARS, quindi si tratta di infezioni che danno l’immunità. Per quanto riguarda la SARS e la MERS, sembra che quest’immunità persistesse per due o tre anni. Per i virus del raffreddore un po’ meno e probabilmente meno anche per questo virus, ma ancora non lo sappiamo con certezza”.
Parlando invece del vaccino, oggi a che punto siamo?
“In Cina hanno già sviluppato un vaccino, inattivato con la formaldeide come il vaccino per la poliomielite degli anni ‘60, dimostratosi efficace sugli animali d’esperimento, ma ovviamente ora bisognerà testarlo sull’uomo. Ci sono poi vaccini basati su proteine ricombinanti, altri a base di RNA, altri di DNA e poi ancora un altro a base di un virus di scimpanzé, tutti testati su volontari. Tuttavia, non servono tanto per proteggere quanto invece per vedere come inducono la risposta degli anticorpi neutralizzanti. Abbiamo quindi 4-5 piattaforme diverse e sapremo presto qual è la migliore”.
Che cosa vuol dire “presto”?
“Minimo un anno”.
E per quanto riguarda invece i farmaci?
“Siccome abbiamo la struttura molecolare della glicoproteina attaccata al recettore, nonché delle due proteasi del virus, ossia della RNA polimerasi e della DNA polimerasi (RNA-dipendente), che è l’enzima che fa replicare il virus, si stanno sviluppando miliardi di molecole. Alcune sembrano efficaci, ma come per i vaccini, prima di entrare in clinica dovranno seguire un vaglio di sperimentazione, preferibilmente sull’animale. Con il vaccino alcuni hanno saltato la fase animale, ma è importante avere un macaco o un criceto perché non possiamo proteggere l’uomo basandoci esclusivamente sulla risposta degli anticorpi neutralizzanti. Anche qui ci vorrà un anno o due”.
Una volta trovato il vaccino, teme che il virus possa in qualche modo mutare e quindi renderlo inoffensivo o si tratta di un’eventualità piuttosto remota?
“Ci sono oltre 8.000 sequenze depositate. C’è chi si è preso la briga di andare a vedere quante sono le mutazioni che occorrono sul gene della proteina S. Sono circa 14, ma soltanto una si trova su un sito che lega il recettore e al momento sembra che questa non sia una mutazione particolarmente importante. Sappiamo che i coronavirus mutano e addirittura si ricombinano: se due virus infettano la stessa persona ne può uscire un virus chimerico e quindi ci può essere questo problema, ma lo scopriremo più avanti”.
Si parla molto di bambini che sembrano essere più immuni al virus e a confermarlo sono anche le statistiche. A che cosa è dovuto ciò?
“Sembra che la mortalità sotto i 10 anni sia pari a zero. Se si infettano, l’infezione è transitoria, asintomatica o paucisintomatica. Sappiamo che i bambini vengono sottoposti a tante vaccinazioni che possono attivare non solo la risposta adattativa ad anticorpi e cellule con recettori specifici per il virus presente nel vaccino, ma attivano anche una risposta di tipo generalizzato”.

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