L’INTERVENTO Figli della disperazione

0
L’INTERVENTO Figli della disperazione
Sergio Mattarella e Furio Radin al Quirinale. Foto screenshot video

Il 10 febbraio, Giorno del ricordo dell’esodo e delle foibe, viene vissuto in modo particolarmente intenso anche da chi è rimasto nella Jugoslavia di Tito ed è stato considerato traditore per molto tempo, dalla destra italiana di quegli anni, anche se non esiste famiglia di rimasti in Istria, Fiume o Dalmazia che non abbia la gran parte dei propri parenti nella diaspora giuliano-dalmata, in Italia o nel mondo. In questi giorni, come ogni anno, ho partecipato a manifestazioni a Roma, sofferto con la signora polesana della fotografia di bambina con la valigia, l’ombrello e la scritta esule giuliano-dalmata, diventata un’icona dell’esodo, ascoltato con passione il Presidente Mattarella quando ha fortemente sottolineato la necessità di ricordare l’esodo, le foibe e il contesto in cui sono avvenuti, ma anche di guardare a un futuro comune. Che, lo dico per inciso, è anche di noi rimasti.

Ho vissuto gli anni del secondo dopoguerra in cui le ideologie si confrontavano e scontravano passando, senza chiederci nulla, sopra le nostre teste, per poi coinvolgerci. Negli angoli più reconditi delle nostre menti, nei nostri subcoscienti, dove le “false coscienze” hanno ben poche armi da usare, rimaneva radicata la domanda del perché non avessimo avuto la forza di partire. So per certo che negli animi di molti esuli si presentava la stessa, anche se capovolta, domanda: perché non abbiamo trovato il coraggio di rimanere?

La risposta, esibita nelle occasioni ufficiali, è stata fortemente auto-protettiva, a difesa di qualcosa che ormai era irreversibile: per gli esuli il dichiarato mantenimento di un’identità nazionale, anche in un nuovo contesto sociale che spesso li segregava. Per i rimasti quella del rifiuto di abbandonare la propria casa e la propria cultura ancestrale, poi definita autoctona, molto spesso derisa, in quegli anni, da chi cavalcava la forza del nuovo potere e ci indicava la via dell’Italia, come naturale per noi, pena l’assimilazione a una cultura che non era la nostra. I nazionalismi opposti, usando i medesimi argomenti, ci mandavano a dire che la scelta di rimanere italiani a casa nostra era sbagliata.

Per questo, sull’onda dei ricordi dell’esodo, che noi condividiamo, voglio ricordare la tragedia di chi è stato bollato per aver avuto la “colpa” di rimanere a casa propria. Identificando gli Stati come unici garanti di identità etnica e ignorando la forza delle culture, anche di quelle di gruppi ridotti di persone, come importante per la sopravvivenza di una comunità e, con tutti i limiti del caso, di una lingua, i nazionalisti di ogni provenienza e colore ci mandavano, e in parte ci mandano a dire che siamo italiani sbagliati.

Le parole di Mattarella, e di Tajani, sul futuro comune dei tre Stati in cui viviamo ci confortano, l’aiuto finanziario dell’Italia e di una schiera di politici e uomini di cultura illuminati negli ultimi decenni, è stata determinante dal punto di vista morale e ci ha fatto sopravvivere. Insieme alle nuove aperture, soprattutto al supporto economico della Croazia e, parzialmente, della Slovenia, ci aiuta a vivere. Ricordiamoci, finalmente sotto un comune cielo europeo, resiste un popolo giuliano oggetto, in passato, di trasferimenti in massa ed efferatezze, ma anche una comunità ostinata a rimanere italiana nelle proprie terre. La parola coraggio, per esuli e rimasti, rende l’idea fino a un certo punto, dato che siamo stati entrambi figli della disperazione. Ma, oggi, dopo tanti anni, superando luoghi comuni e ragionamenti che appartengono al passato, rimaniamo, di fatto o con lo spirito, finalmente liberi da confini, in queste terre bellissime, spesso sfortunate, che tanto amiamo.

*vicepresidente del Sabor e deputato della CNI

Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.

L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.

No posts to display