Grubiša: «Chissà se diventeremo uomini migliori»

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Grubiša: «Chissà se diventeremo uomini migliori»

Damir Grubiša, già Ambasciatore della Repubblica di Croazia in Italia, e oggi docente presso l’American University di Roma, ha definito quello che stiamo vivendo un vero e proprio incubo. Anche se, dopo un primo momento di shock, sprazzi di sole li vede spesso. “Per me questo è un brutto sogno iniziato verso la fine di febbraio, con l’annuncio della chiusura delle scuole decretata dal governo. Che la cosa si stava facendo grave – esordisce –, l’ho capito però il successivo 2 marzo, un lunedì in cui sono entrato in aula per tenere una lezione ai miei studenti dell’American University di Roma, al Gianicolo, trovando però l’aula deserta. Ero giunto un po’ in anticipo per poter preparare tutto per la mia relazione sul tema La cultura e i media nei processi di globalizzazione, che avrei accompagnato dalla proiezione di diapositive. Quando ho capito che non sarebbe venuto nessuno, sono uscito dall’aula chiedendo ai miei colleghi docenti, anch’essi in attesa degli studenti, che cosa stesse succedendo. Nessuno dei ragazzi si era fatto vivo. Ben presto ci è stato riferito che durante il weekend l’Ambasciata Usa aveva provveduto a evacuare tutti gli studenti statunitensi con un’azione degna dei marines in tempo di guerra. Da lì, la nostra decisione di proseguire con i corsi in forma telematica, ovvero online. Così, dopo due settimane di “riposo” forzato, concessoci nella speranza (dimostratasi poi vana) che nel frattempo l’emergenza sarebbe rientrata e che la situazione si sarebbe normalizzata, ci siamo ritrovati purtroppo a doverla estendere anche al prossimo mese di aprile. Da quanto ci è dato sapere, l’ordinanza rimarrà in vigore anche a maggio. Nel frattempo il governo ha varato nuove misure di sicurezza, decretando l’allarme rosso su tutto il territorio italiano. È dunque da un bel po’ che lavoro da remoto. Chiuso rigorosamente in casa, trascorro il mio tempo preparando lezioni online per i miei studenti. Trovo curiosa questa nuova modalità di lavoro, in cui bisogna tenere di conto dei fusi orari – anche con 11 ore di differenza – visto che i miei ragazzi sono sparpagliati in giro per gli Stati Uniti, dalla costa orientale alla California. I collegamenti in tempo reale sono pertanto praticamente impossibili. Certo, per gli studenti è una vera cuccagna, dato che pure gli esami si tengono a distanza ed è difficile tenerli sotto controllo.
Nei momenti liberi, nella tranquillità di casa mia, passo spesso un po’ del mio tempo alla finestra, a osservare Roma e a pensare con nostalgia alle allegre serate in compagnia dei miei amici a Trastevere o in centro città, oppure andando a teatro. Il lavoro mi salva dal non sprofondare nell’angoscia, ed è una fortuna. E poi, a casa, c’è Aleksandra, mia moglie che insegna Teatro e spettacoli alla Sapienza di Roma e che, come me, si è ritrovata a dover rivoluzionare le proprie abitudini lavorative. È bello perché essendo entrambi docenti, questa quarantena forzata ci dà modo di lavorare fianco a fianco.
A rallegrarci le giornate c’è il terzo membro di famiglia, il nostro barboncino di nome Bubi, che ci fa compagnia e grazie al quale ci è concesso di uscire da casa due volte al giorno per portarlo a spasso a fare i bisogni. Lo facciamo a turni, la mattina e la sera, nel vicino parco di Villa Fiorelli, zona ora chiusa su ordinanza del governo. Bubi è ancora un po’ confuso da questo cambiamento di… rotta che ci costringe a fare un giro più lungo e per lui, abituato a tutt’altra traiettoria, è un po’ una novità. Roma è deserta. L’ultima passeggiata che ho fatto in centro è stata due settimane e mezzo fa. Aleksandra ed io siamo usciti con il nostro amico Nerkez, ex Ambasciatore bosniaco in Italia, bloccato a Roma, dopo che da Parigi aveva voluto raggiungere Tunisi, dove vive con la moglie. In quella circostanza ci siamo gustati una pizza da Francesco, dietro piazza Navona, già allora praticamente vuota, monca del suo tipico viavai quotidiano e della presenza di turisti. È stata per noi l’ultima… boccata d’aria fresca, dato che già il lunedì successivo è scattato l’allarme rosso e il primo coprifuoco. Chiusi ben presto i ristoranti e i bar, e poi pure i negozi. Un silenzio assordante è caduto sulla città eterna. Questa sensazione di disagio è durata qualche giorno, per lasciare poi posto alla resilienza dei romani e al forte spirito della città. Da allora, ogni sera, attorno alle ore 18, usciamo sui nostri balconi o ci affacciamo alle finestre e cantiamo. Il repertorio va dall’intramontabile Volare fino all’Inno di Mameli e poi via con scroscii di applausi, rivolti al corpo medico e paramedico, a tutti gli ammalati, agli anziani. In segno di solidarietà”, racconta commosso.
“Oggi mi chiedo: chissà se dopo quest’esperienza, una volta che l’emergenza sarà rientrata, riusciremo a migliorare e a riesaminare i nostri valori, mostrando maggiore empatia verso il prossimo? Forse diventeremo finalmente più consapevoli dell’importanza delle piccole cose della vita e di quanto la salute sia fondamentale. Credo che lo avevamo dato tutti un po’ troppo per scontato”.

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