(Adnkronos) – Le amministrative 2023 non hanno cambiato gli equilibri di genere e non hanno inciso significativamente sull’età media e sul grado di istruzione dei primi cittadini italiani. È quanto emerge da un’elaborazione di Centro Studi Enti Locali spa (Csel), per Adnkronos, basata sui dati estratti dall’anagrafe degli amministratori locali e regionali del Viminale (aggiornati al 4 luglio 2023).
I dati, aggiornati a seguito dell’ultima tornata elettorale che ha portato alle urne i cittadini di 793 comuni, indicano che la percentuale di sindache in carica è rimasta ferma al 15% del totale. Anche sul fronte dell’età media, le variazioni sono state quasi impercettibili. La fascia d’età più rappresentata tra coloro che attualmente svolgono il ruolo di primo cittadino resta quella compresa tra 51 e 70 anni (54%). Seguono coloro che hanno tra 31 e 50 anni, che si attestano ora al 36% contro il precedente 37%, e quelli che hanno più di 79 anni (9%). Scarsissima la presenza tra i sindaci dei ragazzi con meno di 30 anni, che sono circa l’1% del totale.
Anche con riferimento ai titoli di studio dichiarati da chi ha conquistato la fascia tricolore, non si è assistito a significativi cambiamenti. Allo stato attuale, sono in possesso di una laurea 48 sindaci su 100 (contro i 47 dell’ante-amministrative 2023). Il 45% ha conseguito una laurea magistrale o specialistica, l’1,9% ha una laurea di primo livello o triennale. Lo 0,2% ha dichiarato di essere in possesso anche altri titoli post laurea e lo 0,8% ha una specializzazione post laurea o un dottorato di ricerca. Oltre la metà dei primi cittadini italiani non sono andati oltre il liceo. Nello specifico, ha conseguito un diploma, o dei titoli equivalenti, poco meno del 43% dei primi cittadini attualmente in carica. Lo 0,2% dei sindaci, analogamente al pre-amministrative 2023, dichiara come titolo di studio più alto la licenza elementare. Tutti gli altri hanno interrotto gli studi dopo le scuole medie.
“Nessuna rivoluzione è dunque emersa dalle scelte elettorali compiute lo scorso maggio dagli oltre 6 milioni di elettori chiamati alle urne. Questo, è bene precisarlo, era prevedibile per più ordini di motivi: il primo strettamente numerico. Le amministrative 2023 hanno riguardato circa un comune su dieci, quindi anche dei risultati che si discostassero significativamente dalla media generale, non avrebbero potuto sovvertire le tendenze sedimentate nelle consultazioni precedenti”, sottolinea Csel.
“Gli occhi sono quindi ora puntati sulla prossima tornata elettorale, che presumibilmente sarà fissata il prossimo giugno, in concomitanza con le elezioni europee. In quell’occasione, sarà infatti chiamata alle urne più della metà dei cittadini italiani e ci saranno quindi le condizioni, almeno numeriche, per aprire la strada a una nuova classe dirigente che non ricalchi pedissequamente le caratteristiche di quella attuale”, afferma Csel.
“Chiaramente, l’auspicio è – prosegue – che, a fare la differenza, siano le capacità del singolo aspirante sindaco, la sua reputazione, le sue caratteristiche, il suo programma politico e la sua abilità nel raccontarlo, e non necessariamente la sua data di nascita e il sesso. Ma, in generale, i dati fanno emergere divari generazionali e di genere talmente vasti che sarebbe miope pensare che questo sia incidentale e che non ci siano delle ragioni storiche, culturali e politiche dietro a queste tendenze. Va da sé che un grosso ruolo nella partita lo giocheranno, oltre alle scelte degli elettori, anche i nomi che finiranno nelle rose dei candidati”.
“Se si assistesse di nuovo a uno scenario come quello dello scorso maggio, o degli anni precedenti, in cui c’erano solo due donne su dieci in corsa per la carica di sindaco, l’esito – avverte Csel – non potrebbe essere che quello di una conferma degli attuali equilibri di genere. Per andare nella direzione della riduzione del divario di genere, sarà fondamentale vedere, ad esempio, se, a differenza di quanto avvenuto per l’ultima tornata elettorale, l’anno prossimo sarà dato seguito alla pronuncia della Consulta sulle quote rosa nei piccoli comuni”.
“Con la sentenza numero 62/2022, la Corte costituzionale ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 71, comma 3-bis, del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali e 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali, nella parte in cui non prevede l’esclusione delle liste che non assicurano la rappresentanza di entrambi i sessi nei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti”, ricorda.
“Se questa presa di posizione si traducesse in una effettiva modifica del quadro normativo vigente, questo avrebbe un impatto dirompente sulle liste elettorali. Stando a una elaborazione di Centro Studi Enti Locali, infatti, in occasione delle ultime elezioni amministrative, ben 166 comuni delle regioni a statuto ordinario con meno di 5mila abitanti su 352, non aveva centrato l’obiettivo quote rosa. Si tratta del 47% del totale, ancora di più rispetto al 2022 in cui questa situazione aveva riguardato il 44% dei piccoli comuni”, conclude.
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