I cavalieri dell’Apocalisse

Ricordi di Nevio Milinovich

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I cavalieri dell’Apocalisse

“Ho accennato qualche giorno fa a un ricordo di mio padre di cui avevo perso un po’ i particolari” – ha scritto alcuni giorni fa Patrizia Milinovich – figlia di Nevio e nipote del noto poeta fiumano Egidio, suo fratello – nel gruppo di discussione su Facebook “Un Fiume di Fiumani”. “Oggi gli ho chiesto di raccontarmelo di nuovo. Lui ha fatto di più: mi ha consegnato alcune pagine scritte da lui con ricordi e riflessioni. “Tienile tu. Magari ti potranno servire per la scuola. E comunque sia, so che le conserverai con cura”. “Così mi ha detto. Tornata a casa, ovviamente, le ho letto. Sono ricordi. Solo ricordi. Sentiti tante volte da ragazzina, ma che gli anni avevano un po’ sbiadito.

Nevio Milinovich

Grazie papà per questo grande regalo. Pagine scritte che custodirò con amore infinito”.

A scuola continui confronti

Ho conosciuto i “Tre cavalieri dell’Apocalisse” che hanno funestato il secolo scorso: il fascismo, il nazismo e il comunismo. Ho conosciuto il loro vero volto, quello tragico e reale che non sempre la storiografia ha il coraggio di raccontare.

Sono nato nell’anno IX° dell’“era fascista” e ho vissuto i primi dodici anni della mia vita secondo i comandamenti del regime. Sono cresciuto nella retorica fascista, nell’artificiosa e per molti aspetti, tragicomica società italiana del tempo. E anche se non ero in grado di capire, allora, il mondo che mi stava intorno, percepivo il disagio della gente comune, di quella parte di popolo alla quale apparteneva la mia famiglia.

Avevo chiara la consapevolezza di essere figlio di un “povero operaio”, come allora si soleva dire, per indicare chi stava dall’altra parte e non godeva dei privilegi e dei favori che spettavano agli altri. Quelli che indossavano la camicia nera ed erano bravi a farsi notare in ogni occasione, bravi a genuflettersi e mettersi in orbace al sabato fascista, a partecipare alle immancabili ed esaltanti adunate.

Sono stato “figlio della lupa” prima, “balilla” poi. Ho marciato nel cortile della scuola ogni sabato mattina col fuciletto di legno e la faccia feroce, insieme ai miei compagni. Imparavamo a essere militareschi, ci sforzavamo ad avere piglio severo. Eravamo la futura “razza guerriera” destinata a grandi cose, grandi come il destino della nostra Patria, nata “sui colli fatali di Roma”.

Di quel tempo ricordo i quaderni di scarsa qualità che mi venivano dati gratuitamente ogni tanto, perché figlio di quel povero operaio di cui sopra. Ricordo il cucchiaio di olio di fegato di merluzzo che alle 10 di ogni mattina il bidello, con il bottiglione sotto il braccio, ci obbligava a prendere girando per le aule. Quel cucchiaio che dovevamo portare nella cartella, avvolto in un pezzo di carta bisunta che appestava quaderni ed ogni altro oggetto contenuto in essa. Ricordo gli scarponcini neri con la suola di legno (gli zoccoli del duce) e la tomaia fissata con chiodi dalla testa rotonda e sporgente, ben visibili, che venivano dati ai più bisognosi. Ricordo il rumore insopprimibile che facevano nel camminare e gli sforzi patetici che facevamo noi, nella vana illusione di non farci sentire, per non autocollocarci da soli nella categoria dei poveri.

E poi le “colonie estive”. Ambito sogno, alle quali non era possibile essere ammessi sempre, in quanto i posti erano sempre pochi per i troppo poveri che ne avrebbero avuto bisogno e diritto. Ambite, queste colonie, soprattutto per il rancio regolare, giornaliero e abbondante.

Ricordo il disagio e l’umiliazione che provavo nei continui confronti che a scuola, inevitabilmente, ero costretto a fare con i compagni appartenenti a categorie abbienti, figli di professionisti, commercianti e altro, immancabilmente gerarchetti o iscritti al PNF (partito nazionale fascista).

Confronti con il loro abbigliamento, con le loro scarpe, con i loro quaderni di prima qualità, con le loro scatole di colori Giotto da 24 o 36, con in cartella la mia da 6 pezzi. La differenza risaltava persino nella divisa che al sabato mettevamo tutti, maestri e bidelli compresi: le nostre, forniteci gratis dal regime, fatte di tessuto scadente, informi e povere d’aspetto e di sostanza. Le altre eleganti e belle esteticamente, che sicuramente non irritavano la pelle e non la facevano diventare e rimanere rossa per tutto il resto della settimana. Infine ricordo, con una punta di orgoglio, l’ostinato e fermo rifiuto di mio padre, uomo semplice, di dotarsi della “cimice” da portare all’occhiello della giacca (così veniva chiamato il distintivo degli iscritti al PNF). Il suo rifiuto mai venuto meno, nonostante le sollecitazioni di uno zio materno, viceconsole all’Ente Porto, che gli prometteva in cambio dell’iscrizione al partito, la subitanea promozione a caposquadra. Rimase fermo nel suo NO e continuò a fare il suo umile e faticoso lavoro di scaricatore.

Conoscevo il fascismo.

L’occupazione nazista

Il 25 luglio 1943 (avevo12 anni) al crollo del regime, la mia città, come del resto tutta l’Italia, veniva occupata dai tedeschi. Ricordo il clima di allora: la rigidità teutonica, la severità e la durezza delle leggi. L’intera regione (Litorale Adriatico) venne dopo poco annessa al Terzo Reich, così come l’Alto Adige. Al posto del Prefetto, sino ad allora rappresentante dello Stato, venne ad amministrare la regione un “Gaulaiter” del quale ricordo il nome che leggevo in calce ai molti avvisi affissi sui muri della città e che terminavano con le parole “D’ordine del Gaulaiter Reiner”.

La Gestapo venne affidata a un famigerato e sinistro personaggio: Sturbanfurer Lotar Globocnik, di origine austriaca, nato a Trieste e forte di un appropriato rodaggio fatto sul fronte orientale al comando delle famigerate “squadre della morte Einsatzgruppen” o nome simile.

Ricordo di quel tempo gli allarmi aerei che di giorno e soprattutto di notte ci facevano saltare dal letto, vestirci in fretta e correre nei vari rifugi antiaerei dislocati nei vari punti della città, sotto a costoni di roccia, nelle semplici cantine dei palazzi o scavati semplicemente nel sottosuolo e difesi da qualche metro di terra.

Rammento il rumore cupo delle bombe che cadevano, la vampata d’aria calda che percorreva tutta la lunghezza del rifugio e l’angosciosa domanda che faceva mia madre: “Chissà se troveremo ancora la nostra casa”. Seguiva il cessato allarme e il ritorno a casa. Nelle notti d’inverno trovavo il letto di nuovo gelato e prima ancora di essermi riscaldato e di aver ripreso il sonno, le sirene dell’allarme aereo risuonavano ancora ed eravamo costretti a ripetere il doloroso calvario di qualche ora prima. A volte l’allarme risuonava due o anche tre volte nel corso della notte.

Ricordo l’atmosfera di quel tempo, l’angoscia delle molte famiglie di ebrei che conoscevamo e che vedevamo dalle finestre di casa, essendo il casamento nel quale abitavo, situato sul confine della zona impropriamente considerata ghetto, in quanto quasi tutti i palazzi limitrofi erano abitati da famiglie ebraiche. Ricordo una ragazzina di qualche anno maggiore di me, con magnifici capelli ramati, lunghi ed ondulati. Bella, gentile ed educatissima. Ne eravamo tutti innamorati e a volte veniva a giocare con noi nel mio cortile. Ho ritrovato il suo nome, Eva Klein, non molto tempo fa, in un libro sull’Olocausto, che la indicava deceduta assieme a sua madre, zie e parenti nel lager di Aushwitz”.

Ho visto retate, gruppi di persone incolonnate e scortate da soldati tedeschi, passare per le vie della città.

Ho visto, da poca distanza, la distruzione con la dinamite della Sinagoga della mia città, opera insigne di un grande e famoso architetto ungherese, autore di opere architettoniche in varie parti d’Europa e considerate capolavori d’architettura. Portarono via su due camion tutto quello che valeva la pena di rubare. Ricordo le fiamme, il fumo, il rumore, gli schianti e le nuvole di scintille che si alzavano nell’aria.

Erano passati due anni dal 25 luglio 1943.

Conoscevo il nazismo.

*per gentile concessione
di Patrizia Milinovich

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